Francesco Amoroso per TRISTE©
“Può una voce poco più che ventenne trasmettere il dolore di una vita vissuta pericolosamente, la passione che un cuore in inverno ha provato e perduto, le sigarette fumate in una lunga vita? Se ritenete che la risposta sia no, allora non avete ascoltato la voce di Micah Paul Hinson. Non è un caso che le corde vocali del giovane cantautore del Tennessee riescano a trasmettere tutto ciò: Micah, infatti, prima di arrivare ai vent’anni, aveva già alle spalle una biografia degna di un vissuto outlaw.”
Così iniziava, quasi nove anni fa, il mio tentativo di raccontare la carriera di uno dei cantautori americani più amati degli ultimi tempi, almeno in Italia.
Era almeno un decennio, in quel momento, che Hinson, con cadenza biennale circa, ci raccontava della sua vita e dei suoi affanni e, fino ad allora, non aveva perso un colpo. Anzi: sei album e sei colpi dritti al centro del petto.
Da allora – era appena uscito The Nothing – però le cose hanno cominciato a prendere una piega diversa. Nonostante i suoi concerti italiani, sempre più frequenti anche per ragioni sentimentali, continuassero a essere gremitissimi e apprezzati, sembrava subentrata nel musicista americano, una stanchezza, un’apatia, una svogliatezza che, combinate con le sue ormai croniche dipendenze, lo stavano portando a prosciugarsi, a ripetersi stancamente, senza guizzi, senza il fuoco che, fino a quel momento, sembrava ardergli dentro.
E così i suoi concerti si sono pian piano trasformati in una lenta agonia per chi, come me, l’aveva profondamente amato: forzati, ripetitivi, stanchi. Micah interpretava le sue canzoni come se fosse costretto da un destino sempre più avverso a replicare all’infinito le stesse pose, gli stessi toni, la stessa noiosa routine. Non sembrava divertirsi più. E noi con lui.
Dopo il traballante The Holy Strangers (nel quale almeno tentava di reinventarsi) e il successivo tutt’al più discreto When I Shoot At You With Arrows, I Will Shoot To Destroy You, così, ho finito per perderlo un po’ di vista e non ne ho seguito le successive vicende di vita, ma, vedendo sempre più diradarsi le sue apparizioni, mi sono spesso chiesto che fine avesse fatto.
Nella migliore delle ipotesi, pensavo, era riuscito a sconfiggere i propri demoni e si era ritirato in buon ordine per rimettersi in sesto e godersi finalmente un po’ di normalità e anonimato. Nella peggiore.. preferivo non pensarci.
E’ stata così una graditissima sorpresa, un paio di mesi fa, scoprire che non solo Hinson era vivo e vegeto, ma che era passato in Italia (in Irpinia, per la precisione) a registrare, insieme ad alcuni prestigiosi artisti nostrani (Alessandro Stefana, in veste di chitarrista e produttore, Zeno De Rossi alla batteria e Raffaele Tiseo agli archi) e al noto contrabbassista Greg Cohen, un nuovo album.
I Lie To You – il cui titolo potrebbe riferirsi a qualsiasi cosa, ma che mi permetto di interpretare come una presa di coscienza riguardo gli ultimi stanchi anni della sua carriera – pare sia stato registrato in soli cinque giorni e dimostra come la pausa di quattro anni che Micah si è concesso fosse doverosa.
Il musicista cresciuto ad Abilene, Texas, sembra, tra le note di questa nuova fatica, rigenerato, di nuovo ispirato e, finalmente, nuovamente genuino e sincero. Le coordinate stilistiche dell’album non si discostano da quanto Hinson ci ha sempre fatto ascoltare: I Lie To You è un’altra esplorazione cruda e disarmante di fallimenti e rimpianti personali. Anche nel brano più “allegro” del lotto, una malinconica ballata uptempo, di quelle che i cowboys suonavano intorno ai falò, di notte, nelle praterie sconfinate, Waking on Eggshells, canta “Give me a knife, I’ll show you my vein“, minaccia di “blow out your brain” e proclama che “must be going insane”. Non ci troviamo, insomma, di fronte a una reinvenzione, né a una trasformazione, quanto a una sorta di ritorno a casa.
Micah P. Hinson è ancora stanco del mondo, solo, distrutto e instabile, ma, stavolta riesce a raccontare e musicare le sue tribolazioni con un ritrovato vigore e una rediviva ispirazione.
I Lie To You, un’opera triste di folk delicato e (a tratti) orchestrale, suona fresco e registrato magnificamente, senza troppi fronzoli, con il country e il folk che emergono vitali da ogni nota e la voce ormai inconfondibile di Hinson che ritrova impeto e convinzione.
Nonostante abbia solo quarantuno anni, la sua vita travagliata sembra avergliene messi addosso il doppio e così le sue canzoni suonano un po’ come i lamenti -o, meglio, i racconti davanti al fuoco- di un vecchio cowboy, con la voce arrochita dal whiskey e dalle sigarette e con più aneddoti da raccontare di chiunque altro nel saloon.
Nascono così canzoni struggenti come The Days of My Youth, il valzer lento e traballante Carelessly ( “Carelessly we lost it all/I’m sure it didn’t mean a thing“), la disperata e dolcissima What Does it Matter Now, la ballata country Wasted Days and Wasted Nights, la straordinaria cover, ridotta all’osso e rielaborata nel testo, dell’originale di David Bazan People, l’aggressiva Find Your Way Out (e rimane un mistero come la superba You And Me sia solo una bonus track digitale).
La voce tremante, roca e spezzata di Hinson, accompagnata di volta in volta dal pianoforte, dalla chitarra acustica, dal mandolino, dagli archi, è desolata e vera, e anche brani quasi calligrafici come Ignore The Days, con la voce sempre sul punto di cedere, o Please, Daddy, Don’t Get Drunk This Christmas, che sarebbe potuto suonare banale nella sua tristezza senza speranza, funzionano alla perfezione.
E funzionano anche grazie agli arrangiamenti misuratissimi e alla strumentazione organica che donano una patina di spontaneità e immediatezza alle registrazioni.
Contrariamente a quanto accadeva con gli ultimi lavori di Hinson, infatti, I Lie To You punta tutto su un songwriting morbido, semplice e diretto, tralasciando le sovrastrutture produttive e concettuali che avevano appesantito i suoi predecessori.
Nel presentare l’album, Hinson ha raccontato: “Mi ha colpito il fatto che tutto quello che stavo facendo era scrivere delle mie precedenti relazioni e situazioni, e questo significava che non avevo un posto dove andare. Come puoi progredire come essere umano nel futuro se tutto ciò che stai facendo è scrivere di tutta la merda che ti incatena al passato?“. Si è ripromesso, allora, di scrivere solo di ciò che gli accade nel presente, ma, evidentemente, prima di andare avanti, aveva ancora bisogno di fare i conti con se stesso e con il suo passato e così ha deciso di rielaborare e registrare le canzoni già scritte e conservate in un cassetto negli ultimi venticinque anni.
E’ molto probabile che sia stata questa ritrovata voglia, questa spinta verso il futuro, a rivitalizzare Hinson e le sue composizioni.
Così, nonostante I Lie To You sia ancora una volta un album disperato e crepuscolare, esco ogni volta rinfrancato dal suo ascolto: mi sembra, ascoltandolo, di aver ritrovato un amico che credevo da tempo perduto per sempre e, allo stesso tempo, guardo avanti e mi chiedo dove potrà arrivare Micah P. Hinson con il suo talento, finalmente libero -speriamo- dai demoni e dal pesante fardello del passato che gravava sulle sue spalle fino a soffocarlo.
Bentornato!
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