Andrew O’Hagan – Mayflies (Effimeri)

Francesco Giordani e Francesco Amoroso per TRISTE©

“And the words we sang were daft and romantic and ripe and British, custom-built for the clear-eyed young”

Approfittiamo della relativa bonaccia discografica, che in realtà già va increspandosi, ahinoi, per strappare un ultimo scampolo di parole da lasciare in memoria del nostro 2022.
Un anno, forse più del previsto, ricco di sorprese, eccitazioni e scoperte musicali (tutte più o meno documentate a dovere dalle nostre tradizionali classifiche decembrine), a cui si aggiunge, sul versante letterario, un libro che pare scritto proprio per “quelli come noi” e che, esattamente per tale motivo, merita di essere ricordato e custodito. E raccontato a chi ancora non l’ha letto.

Uscito nel 2020, con il titolo di Mayflies, il sesto romanzo dello scozzese Andrew O’Hagan è approdato giusto qualche mese fa sugli scaffali delle librerie italiane nella traduzione di Marco Drago. Si tratta fondamentalmente di un libro che parla di musica ma in senso molto specifico: non una musica qualsiasi, non il “rock” genericamente (fra)inteso ma “quel” rock che tanto piace a noi e che così spesso su queste pagine abbiamo celebrato, incastrato fra gli ultimi sussulti post-punk (i Joy Division risuonano per tutto il libro a intervalli regolari, come un rintocco d’orologio) e i primi vocalizzi del nascente indie-pop (ad un certo punto si racconta abbastanza incredibilmente di un mirabolante concerto degli Shop Assistants, per dirne una…), sullo sfondo di una Gran Bretagna tanto buia e sventurata sul piano politico quanto miracolosamente prolifica su quello artistico.

Ma il libro parla anche se non soprattutto di amicizia, narrando di fatto e con generosa dovizia di dettagli storiografici, per tutta la prima delle due parti di cui è composto, le opinioni e le tragicomiche imprese di un gruppo di amici poco più che adolescenti che nell’estate del 1986 da Glasgow muove alla volta di Manchester, per assistere a “quello che promette di essere il più bel concerto della storia”, il festival “della decima estate”, consumatosi a dieci anni esatti dalla leggendaria esibizione dei Sex Pistols alla locale Lesser Free Trade Hall nel 1976 (il programma? New Order, The Smiths, The Fall e Magazine, al modico prezzo di tredici sterline: qui una foto dell’evento).

Per la voce narrante Jimmy (o Noodles), per il suo amico e mentore Tully e per il resto della strepitante cricca rockettara, l’evento si configura da subito, del tutto consapevolmente, come un rito di passaggio inevitabile, come una struggente cerimonia collettiva di addio alla propria giovinezza, da ballare e urlare a squarciagola, mentre Morrissey si denuda e contorce sul palcoscenico alla stregua di un Santo (“È più grande di Gesù”).

Atmosfere intrise di esaltazione, mito e nostalgia pressoché istantanea, che fanno tornare alla mente certe immagini, ormai stampate nelle pupille, di Stand By Me, I Vitelloni o anche Il Cacciatore -sebbene i nostri ragazzi, super cinefili, amino discettare soprattutto di C’era una volta in America, Ritorno a Brideshead e del più letterario free cinema, come Saturday Night and Sunday Morning, con i protagonisti del romanzo che citano le battute di Albert Finney scritte da Alan Sillitoe) – e che portano a riflettere su quanto l’ascolto della musica, attività apparentemente solitaria, ottusa, sufficiente a sé stessa, sia in realtà qualcosa che ci connette costantemente agli altri, che ci catapulta “fuori” di noi, restituendoci ad un’esperienza del mondo completamente nuova, altrimenti inaccessibile, grazie alla quale diventa per noi possibile sentire chi siamo veramente. Quel sentimento, per un brevissimo attimo, ci rende eterni, perfetti e immortali.

Non per caso la poetessa scozzese Carl Ann Duffy consiglia di mettere questo romanzo “in mano agli amici”. In compagnia dei nostri amici abbiamo scoperto, inseguito e amato tanta della musica da cui la nostra vita è stata “decisa”. Attraverso la musica abbiamo spesso trovato gli amici (e gli amori) con cui la nostra vita l’abbiamo vissuta, immaginata, mille volte riscritta. Come si legge a pagina 125: “Il suono che arrivava dalla casse era stridulo ma ogni singola parola e ogni singolo riff di chitarra erano dichiarazioni che solo loro potevano fare e che solo noi potevamo sentire: quella canzoni rotolavano giù dal palco per nutrire le nostre vite”.

La nostra vita è in qualche modo racchiusa nel capitolo 11 di Mayflies. E non solo la nostra.

Vero è che la seconda parte del romanzo, ambientata sempre a Glasgow, ma nel 2017, descrive una parabola amara e, almeno per alcuni personaggi, piuttosto patetica, ma è niente altro che la vita, quella racchiusa nel capitolo 11, quella “decisa” dalla musica che abbiamo sempre ascoltato, che a ex ragazzi di cinquant’anni ormai presenta il conto: Tully, l’amico che ognuno di noi avrebbe voluto, è ora malato e chiede a James di aiutarlo nel portare avanti una scelta drastica e definitiva.
Il romanzo cambia tono, ma non dimensione. E così, mentre James (ormai non più Jimmy o Noodles) riflette sul fatto che “il passato non è solo un paese straniero, ma tutta un’altra geologia“, O’Hagan ci ricorda che essere umani è “an unstable condition that ends badly for all“.
Forse, però, osiamo dire (o, meglio, sperare) che per alcuni, per quelli come Noodles e Tully (e come noi) la cui vita è stata illuminata da parole sciocche e romantiche e mature (e inglesi), la cui vita è stata vissuta, immaginata, mille volte riscritta grazie alla musica, la condizione (condition in inglese è sia condizione che patologia) umana possa essere più tollerabile e che in età matura quei sentimenti, che in adolescenza erano stati spesso travolgenti, soverchianti fino a essere schiaccianti, possano aiutare in qualche modo a renderla più dolce e accettabile.

(A rendere il romanzo ancora più vicino al nostro sentire, poi, è un retroscena: O’Hagan non ha mai fatto mistero del fatto che Mayflies sia un romanzo in parte autobiografico e che il personaggio di Tully sia basato sul suo caro amico Keith Martin (e che Jimmy/Noodles sia il suo alter ego). Ebbene, Keith Martin era un musicista di grande talento – cantava e suonava la batteria, il basso e la chitarra-, un autore e un vero e proprio punto di riferimento per la scena musicale underground della Glasgow degli anni ottanta: la sua prima band si chiamava Ground Zero e Keith gestiva le serate del club Fat Pig a Glasgow. Nel 1986 (l’anno in cui si svolge la prima parte del romanzo) aveva formato The Big Gun – e nella formazione originale c’era anche Andrew O’Hagan al… tamburello. Keith era il frontman, chitarrista e cantautore principale della band, e il loro singolo di debutto, Heard About Love, divenne uno dei preferiti di John Peel che lo passò più volte nel suo leggendario show.
Keith, più avanti, collaborò anche con John Blain Hunt, lo schivo leader dei Butcher Boy, tanto che So Far So What?, uno degli inediti contenuti nella loro magnifica raccolta You Had A Kind Face, uscita l’anno scorso, è proprio un brano di Keith Martin.
Keith was one of the first people I played music with and he was the single greatest influence on me in my adult life. Keith was in love with people and their stories – he understood what you needed in a friend, and he was that friend to you. In 2003, Keith brought So Far So What? to a practice, complete, a tribute to his friend Larry Rhodes who had died in December the previous year. Keith and I didn’t record it at the time; in the weeks before he died, I asked Keith if the band could record the song for him, he said we could, and this is what we did.“)

Che altro aggiungere?

Andrew O’Hagan
Effimeri
Traduzione di Marco Drago
Pp 288
Bompiani, 2022

Qui una struggente playlist ispirata al romanzo, da accompagnare alla sua lettura:

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