
Francesco Amoroso per TRISTE©
E’ disdicevole affermare che, nonostante questo album mi abbia colpito, anzi nonostante ne sia rimasto affascinato fino al punto di caderne innamorato, non sia riuscito a trovare mai il bandolo della matassa e le parole giuste per spiegare le sensazioni e i sentimenti che il suo ascolto mi suscita?
Quando anche fosse disdicevole e per quanto questa affermazione possa sminuire la (già scarsa) credibilità che, con anni di appassionata scrittura, potrei essermi costruito (nell’ambito di una platea sicuramente ristretta), non posso fare a meno di ammettere che ho difficoltà a trovare le parole per spiegare perché Prize, il quinto lavoro della musicista di Bristol Rozi Plain (nome d’arte di Rosalind Leyden), già collaboratrice di This Is The Kit e autrice, nel 2019, del magnifico What A Boost, sia uno degli album che più amo in questo momento e perché non riesca a smettere di ascoltarlo.
Ingiustamente ignorata dalle nostre parti, Rozi Plain s’è fatta strada a poco a poco nel panorama indipendente inglese, prima collaborando con l’altra outsider Rachael Dadd, con James Yorkston e il Fence Collective, poi con This Is The Kit, fino ad arrivare, dopo quattro album solisti di qualità costantemente crescente, a questo Prize, lavoro nel quale il suo approccio sobrio e sincero alla scrittura e la sua voce esile ma espressiva si arricchiscono di sfumature e complessità strutturali, grazie anche all’apporto di collaborazioni illustri (la stessa Kate Stables/This Is The Kit, Serafina Steer e Emma Smith di Bas Jan e JARV IS, Danalogue di Comet Is Coming e Soccer 96, Alabaster dePlume).
Al centro del suono personalissimo di Rozi Plain, c’è la ricerca della semplicità, il bisogno di ricondurre le composizioni alla loro essenza, di rivelarne l’innata bellezza, senza tuttavia rinunciare alla complessità e alla ricchezza dei suoni.
I dieci brani dell’album, costruiti su un’ampia strumentazione e su arrangiamenti sontuosi ed elaborati, tra le influenze jazz, i ritmi rilassati, le spirituali sottolineature del sassofono, i preziosi tocchi dell’arpa, il ricercato utilizzo di elementi elettronici e le austere partiture d’archi, dimostrano come Rozi Plain, pur continuando a pagare in termini di successo il proprio essere completamente non catalogabile, sia una delle autrici più innovative e appassionanti del panorama cantautorale inglese.
E lo è perché non fa mai entrare l’ascoltatore nelle sue canzoni all’improvviso, spalancando una porta sul vuoto, ma lo accompagna, passo dopo passo, rivelando i dettagli dei suoi brani lentamente, senza alcuna fretta.
Tutto questo spiega perché Prize divenga, nel giro di qualche ascolto, un album a cui si rimane avvinti, ammaliati, dal quale si finisce per essere quasi dipendenti?
Non saprei dire, ma forse è proprio il modo di costruire le canzoni di Rozi Plain a creare questa sorta di sensazione di piacevole stordimento, cui, a ogni nuovo ascolto, si finisce per anelare.
Ogni canzone dell’album è costruita su brevi riff di una o due note, che fanno da fondamenta al resto della composizione e che, ripetuti durante l’arco di ogni brano, sono come un filo di Arianna, una sorta di GPS sonoro che permette all’ascoltarore di districarsi nei suoi ricchi arrangiamenti, negli inserti di sassofono, nelle sottolineature di synth, mentre la tensione sonora sale o si dissipa.
Di solito incentrati sulla chitarra o sul basso, questi passaggi brevi e ripetuti sono poi arricchiti dalla voce di Plain, spesso doppiata o accompagnata da una controparte maschile, da melodie basate sull’interazione tra le tastiere e i fiati, da ritmi spezzati e complessi.
E se, in un primo momento, la complessità di queste costruzioni può rendere i vari brani non troppo immediati, l’ascolto permette, afferrandone il filo, di scoprirne la brillantezza e la bellezza.
Canzoni come Agreeing For Two (cantata con Kate Stables), che parte con sparse note di chitarra acustica e elettrica, o Prove Your Good, con basso e batteria a costruire un ritmo ipnotico e un ripetuto riff di due note di chitarra, ma anche Complicated, in cui sono basso e tastiere a formare la base della melodia, dimostrano la maestria con cui si muove Rozi Plain: gli strumenti vengono aggiunti, le armonie vocali accarezzano, i sintetizzatori rendono levigati gli arrangiamenti e le melodie riescono a librarsi aeree.
I ritmi eleganti, spesso lontani da quelli classici del pop e più vicini al jazz, creano complessità e tengono sempre alta l’attenzione, ma le composizioni di Plain non si perdono mai nel caos.
Se in brani come Help, Complicated e Spot Thirteen (ma anche Prove You Good) è più evidente l’inventivo uso delle tastiere, a volte delicate e sognanti, a volte in funzione più centrale, altrettanto centrale è l’uso di strumenti organici: la discreta presenza degli archi (Sore), gli inserimenti puntuali dei fiati (Spot Thirteen), rendono le canzoni più omogenee e coerenti e fanno in modo che Prize scorra liscio, sempre eccitante e stimolante, ma piacevole e inebriante.
E’ anche grazie agli arrangiamenti fluidi e ai ritmi rilassati che i momenti più movimentati vengono esaltati: Painted the Room Black con i suoi inserti elettronici o Standing Up, con i synth che spezzano l’ipnotica introduzione risultano brillanti, coinvolgenti e trascinano, pur ben lungi dall’essere brani dal ritmo scatenato.
Ad ascoltare un album come Prize ci si sente un po’ come un gatto che prova ad afferrare il puntino rosso proiettato da un laser: all’inizio è sfuggente e inafferrabile, poi diventa divertente e, alla fine, semplicemente devi riconoscere che, visto che non ci riuscirai mai del tutto fino in fondo, allora devi solo lasciare che scorra, che fluisca, ipnotico e affascinante (ma senza lasciarti frustrato come un gatto che non riesce ad afferrare il puntino rosso).
I testi di Rozi Plain potrebbero risultare semplici, solo un ulteriore ingrediente dell’amalgama sonoro che contribuisce alla lievitazione dei brani, ma il loro significato è spesso sospeso, giocato su sottintesi o reiterazione di quelle che, all’apparenza, sembrano frasi fatte, ma che, con sottili spostamenti di significato, diventano altro: “What do we want?/ Less/ Do you want more?/ Yes/ Prove you did, prove you do/ Proving it to who?” (Prove Your Good), “What is it if it’s not? / Is it love when it stops?“, “You’re laden/ so lie down/ I’m Leyden” (Conversation), “Blink If You Love Me/ Everyone/ Everywhere/ With elastic energy/ Circular it has to be” (Blink), “What should we call it/ If nothing will do?/ It’s nothing we’ll do/ But what should we call it?” (Agreeing For Two). Ma le parole non richiedono sempre una spiegazione razionale, avviluppate come sono nella serica materia della musica di Rozi Plain.
Non è facile categorizzare la musica di Prize: non è più folk, non è ancora jazz, non è indie music, né soft rock, né cantautorato. Rozi Plain è semplicemente un’artista unica nel suo genere e sarebbe giusto che ottenesse più considerazione e maggiore riconoscimento anche per questo motivo.
Purtroppo, per apprezzare a pieno la sottile complessità delle sue composizioni bisognerebbe prestare maggior attenzione (per quanto, paradossalmente, la complessità si manifesti solo con un ascolto attento e concentrato).
Le canzoni di Prize continuano a risuonare a lungo, anche dopo che la musica si è fermata.
Ronzano in testa, scorrono come pensieri ovattati ma persistenti, vibrano come emozioni, appena percettibili eppure comunque intense.
Non saprei dire perché amo questo album e perché non posso fare a meno di ascoltarlo ripetutamente. Ma credo di averlo detto.