MF Tomlinson – We Are Still Wild Horses

Francesco Amoroso per TRISTE©

Qualche giorno fa, parlando tra il serio e il faceto, mio figlio -quasi undicenne- mi ha confessato che, tutto sommato, preferirebbe non crescere. Troppi problemi, troppe situazioni complesse da affrontare, troppi impegni noiosi, secondo lui.
Ho provato a fargli capire che crescere, invece, lo aiuterà ad apprezzare la vita, che con l’età arriveranno anche tante soddisfazioni, che con la maturità i momenti di gioia saranno vissuti con maggiore consapevolezza e trasporto e che, da adulto, riuscirà ad assaporare e fare tesoro di quegli attimi di felicità che adesso, invece, trascura e dà per scontati.
Non credo di essere stato tanto persuasivo.
Probabilmente perché neanche io ci credevo molto (eppure stavo parlando con mio figlio, una delle pochissime ragioni per cui riesco ancora non dico ad apprezzare, ma almeno a tollerare l’età adulta).

Ma mi rendo conto che mentire, almeno un po’, è inevitabile.
Neanche gli adulti hanno le spalle abbastanza larghe per sopportare la verità nuda e cruda, figuriamoci un bambino che si affaccia alla vita.
E poi, diciamoci almeno questo sinceramente, se non mentissimo innanzitutto a noi stessi, quotidianamente, riusciremmo davvero ad affrontare la realtà e a cogliere qualche attimo di felicità, ad assaporare le piccole gioie e ad apprezzare la vita?
Ho la sensazione che (ma è possibile che, come quasi sempre accade, io stia proiettando le mie elucubrazioni nella musica che ascolto) dietro il titolo del secondo album dell’australiano trapiantato a Londra MF Tomlinson, e a sorreggerne tutto l’impianto concettuale, ci sia proprio una considerazione di questo genere.

Realizzato nella forzata solitudine del gennaio del 2021, We Are Still Wild Horses è descritto dal suo autore come “another diary of a plague year“, ideale seguito e in qualche modo contraltare del suo album di debutto, Strange Time.
Se nel primo lavoro (da queste parti colpevolmente ignorato) Tomlinson tentava di decifrare la misteriosa e del tutto nuova sensazione di vivere nel bel mezzo di una pandemia, We Are Still Wild Horses è una specie di risposta alle domande che la novità del lockdown aveva inevitabilmente posto. Tuttavia, nel tentativo di dare un senso a ciò che resta dopo che la tempesta è passata, ho l’impressione che Tomlinson sia stato costretto a dirsi (e dirci) qualche bugia (a fin di bene, è chiaro).

Intendiamoci: è difficile trovare consolazione nelle parole di MF Tomlinson.
Anzi, mentre nel momento in cui il mondo era in subbuglio e sottosopra, l’australiano si sentiva cautamente ottimista su ciò che sarebbe accaduto poi, We Are Still Wild Horses lo trova perso nell’isolamento, a intraprendere un viaggio oscuro dentro se stesso, alla ricerca di speranza e catarsi.
Ma è l’approdo di questo viaggio (viaggio che già di per sé implica la speranza di qualcosa di diverso, di meglio) a contare, alla fine, e se l’affermazione che, dopo tutto, siamo ancora “cavalli selvaggi” è un qualche tipo di bugia -o di autosuggestione-, detta come la dice lui suona davvero bene ed è del tutto credibile.

We Are Still Wild Horses è un album sorprendente: composto solo da quattro tracce (ma l’ultima dura oltre venti minuti), miscela e amalgama suggestioni e generi musicali diversi, rimanendo però sempre coerente e lineare, fino a produrre, in una sorta di processo alchemico, qualcosa di nuovo e scintillante.
E, contrariamente a tanti altri album ambiziosi e complessi, permette all’ascoltatore di entrare dal primo ascolto nelle sue meraviglie e da subito innamorarsene, pur lasciando agli ascolti successivi la sorpresa e l’emozione di scoprire altre sfumature, altre meraviglie, magari più recondite e occultate nel profondo. Un album i cui dettagli si svelano a poco a poco, con la dedizione e il passare del tempo, ma che riesce a catturare immediatamente l’attenzione.

L’apertura A Cloud è metaforica e ironica, piena di figure ambigue e inquietanti, come quella del (lucido) folle che, nella notte, urla verso nessuno in particolare “The world of humans is awful/ There has never been a better time/ you believe in a lie“, mentre Tomlinson finisce per trovarsi solo di fronte a se stesso e si rende conto che il mondo in cui è cresciuto è finito. L’atmosfera cupa e angosciante del testo, tuttavia, non si riverbera nella musica che è luminosa e confortevole, con lussureggianti arrangiamenti orchestrali, un contrabbasso profondo e un pianoforte che supportano la chitarra e la voce baritonale di Tomlinson.
Acute note di chitarra acustica e sassofono introducono, invece, Winter Time Blues e danno il via alla discesa del cantautore australiano nella propria psiche. Senza speranza, Tomlinson descrive la sua fatica quotidiana e l’impotenza a reggere il peso del mondo sulle proprie spalle e quella che inizia come una semplice canzone folk, si trasforma presto in qualcosa di completamente diverso: fiati, sintetizzatori spettrali e assoli di chitarra elettrica, accompagnano Tomlinson in un viaggio sinistro ma avvincente nella depressione.

Ma, se il blues invernale suona senza speranza, gli otto minuti di End of the Road cercano, sin dalle prime note, un po’ di luce nell’oscurità. C’è qualcosa di Leonard Cohen che risuona nella descrizione delle proteste di Black Lives Matter e Extinction Rebellion a Trafalgar Square e, quando il baritono di Tomlinson è affiancato dalla meravigliosa voce di Connie Chatwin, è quasi impossibile non lasciarsi andare alle emozioni. End Of The Road tratta il tema dell’isolamento, ma è una canzone di speranza e compassione, la cui narrazione termina al festival End of the Road, uno degli ultimi posti in cui Tomlinson ha avuto la possibilità di interagire con altri esseri umani prima dell’avvento della pandemia.
Ascoltandola, per un momento è necessario mettere in discussione l’idea di fondo che, per allontanarci dagli orrori del mondo, sia necessario credere a una bugia, perché, ci suggerisce Tomlinson quasi con esultanza, sono la compassione e la condivisione a renderci sopportabile la vita (e, se anche questa esultanza si spegne lentamente, nell’ultimo minuto del brano, ciò non vuol dire che compassione e condivisione siano solo l’ennesima bugia).

Poi arriva la title track che dura più di 20 minuti e viene introdotta da alcuni minuti di acute note di piano, batteria spazzolata, contrabbasso e synth, in una sorta di jazz onirico, attraverso le cui nebbie sembrano ancora scorgersi sprazzi di luce. Quando, dopo quasi quattro minuti, entra la voce di Tomlinson (“The seventies are in fashion again/ the eighties and the nineties too“), il brano diventa una ballata nello stile del miglior Father John Misty, verbosa e trascinante, per poi proseguire con un lungo strumentale di oltre dieci minuti, a volte etereo e sereno, altre dissonante e straziante, tra sperimentalismi, passaggi rumorosi e intermezzi jazzati, flauto, piano lounge e synth.
Si tratta di un brano coraggioso e sfacciato, che riesce a mescolare ambient e jazz, folk e noise e che porta l’ascoltatore ancora più in profondità nella psiche del suo autore, dove la coscienza si mescola con l’inconscio e un circo di personaggi grotteschi allestisce uno spettacolo la cui comprensione va oltre il linguaggio.

In the end, we always feel despair, disillusionment, hope, longing, insanity, rage, frustration, helplessness and resignation. Through all of that, we are still wild horses.” ci dice MF Tomlinson parlando del suo secondo album.
E poco importa che sia una bugia o meno.
Finché ci saranno album come We Are Still Wild Horses, sarà più facile sopportare (meglio se insieme agli altri) il pesantissimo fardello che siamo costretti a portare ogni giorno sulle nostre spalle.
O, almeno, potremo continuare a illuderci che sia così.
(Restare sempre un po’ bambini, in alternativa, potrebbe essere una soluzione altrettanto valida).


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