Shame – Food for Worms

Francesco Giordani per TRISTE©

Di recente mi è capitato di leggere una lunga quanto interessante intervista a Robert Fripp. Di essa mi ha colpito in particolate un folgorante quanto apparentemente fugace passaggio, nel quale il decano inglese del prog, parlando del suo periodo new wave legato all’album Exposure (1979) e alle coeve collaborazioni con David Bowie, Peter Gabriel e Daryl Hall, marcava con diabolica precisione la differenza fra band post-punk inglesi e omologhe americane dell’epoca. Se in queste ultime furoreggiava un nichilismo idealizzato e bohèmien da scuola d’arte, nelle prime, a detta di Fripp, era l’urgenza della realtà politica a pressare l’estetica della canzone e a plasmarla in forme nuove: “La mia esperienza, nel muovermi da una situazione all’altra, mi porta a dire che da un lato c’era principalmente un movimento artistico, un modo di affrontare le cose, di vivere, di lavorare, e dall’altro lato soprattutto una forte componente di protesta nei confronti delle condizioni politiche ed economiche dell’Inghilterra di allora” (da Rumore n.371, dicembre 2022)

Di acqua sotto i ponti inglesi e americani da allora ne è passata moltissima, scombinando certezze e rigide ripartizioni concettuali, eppure ritengo che le parole di Fripp mantengano tuttora un briciolo di verità.
“Well I’m not much to look at/ And I ain’t much to hear/ But if you think I love you/ You’ve got the wrong idea”, urlando questi versi fiammeggianti, intrisi di velenoso, sincerissimo disamore, nel 2018 gli Shame guadagnarono con sfacciata irruenza la testa di un esercito di nuove band art-punk britanniche che, grazie alle simultanee imprese di IDLES e Fontaines D.C., avrebbe conquistato l’attenzione di un pubblico mondiale e imposto un nuovo standard (piaccia o no) al rock chitarristico contemporaneo, per temi e stile.

A distanza di cinque anni, dopo pandemie, guerre, crisi politiche e catastrofi ambientali sempre più spaventose, alle parole “sorgive” di One Rizla rispondono quelle disilluse, quasi postume, della bellissima Fingers of Steel: “You’re complaining a lot / About the things that you got given /You know you’re wasting away/ There’s a sun outside but you don’t see it/ It’s becoming a chore / It’s becoming a waste of time but I don’t mind/ I know that you would do the same”. La stentorea, spericolata, dichiarazione d’esistenza di Songs of Praise (semplificabile in: “Io ci sono, sono fatto così e se non mi dai lo spazio che chiedo, tanto peggio per te, me lo prendo da solo”) pare stemperarsi oggi in un dubbioso rimuginìo, in una “politica” del ripiegamento riflessivo.

Fingers of Steel è una buona sintesi di Food for Worms, il terzo disco in studio dei Londinesi. Un lavoro molto tribolato, che la band ha inutilmente inseguito provando e riprovando per un anno intero, per poi ricominciare tutto da capo sotto la guida esperta quanto inflessibile di Flood. Le nuove canzoni sono dunque nate come forse dovrebbero sempre nascere: suonandole insieme, direttamente in studio. Tornano in mente le parole che il collega Tiziano spendeva a proposito di un lavoro pur diversissimo come See Those Colours Fly: “Quegli arrangiamenti così stiracchiati, di chitarre spennellate nello spazio, credo si possano fare solo così: tutti insieme in una stanza, ovvero non davanti a qualche software, con le battute e la struttura della canzone da riempire e sistemare.”

Food For Worms ha in effetti un suono grezzo, organico, vitale, scrosciante, a tratti quasi jazzistico (non tanto nel senso del cerebralismo maniacale di black midi e Squid quanto piuttosto in quello più espressionista/poetico dei Black Country, New Road); una bellissima luce naturale, un po’ sporca, ne accarezza le canzoni, talvolta accendendole (la notevole Adderall, la battente Six Pack, la splendida Yankees, futuro evergreen dal vivo), talvolta adombrandole (la bellissima ballata Orchid, degna dei primi Radiohead, la sconsolata Burning My Design).

Ad attraversare strofe, riff e ritornelli è una costante vocazione al movimento, alla progressione, al non-restare-mai-fermi. Che vuol dire anche crisi, instancabile ricerca di un senso e di una definizione non stabiliti a priori, semmai raggiunti attraverso la nuda potenza del suonare insieme, senza progetti o obiettivi.

E forse proprio di questo, dell’esigenza di ritrovare uno spirito di comunione a partire dal rumore assordante dei nostri fallimenti, canta All The People, a parer di chi scrive la canzone più bella firmata sinora dagli Shame:
All the people that you’re gonna meet
Don’t you throw it all away
Because you can’t love yourself
Oh, when you’re smiling and you’re looking at me
A life without that in
Is a life I can’t lead

Se non è politica questa…

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