
Peppe Trotta per TRISTE©
Affrontare il pensiero della morte è sicuramente un atto difficile da compiere, trovare una chiave di lettura per ciò a cui ci si vorrebbe sottrarre pur conoscendone l’ineluttabilità è profondamente complesso. Forse proprio per questo, chi ne è capace, ricorre all’arte per farlo, provando a dare forma ai sentimenti attraverso un mezzo d’espressione congeniale. L’universo musicale è pieno di tali esempi, ciascuno mosso da un proprio moto interiore e realizzato in modo del tutto peculiare, anche se scaturente dalla medesima riflessione.
E il senso della perdita, il suo inevitabile accadere è al centro del secondo album di Sergio Díaz De Rojas, risvegliato da tanti episodi connessi al recente passato pandemico che lo hanno inevitabilmente riportato alla ferita più profonda, all’assenza dell’amato nonno musicista scomparso per sua scelta quando lui era adolescente. A partire dai ricordi, dalla malinconia per l’accaduto, il musicista peruviano trasferitosi in Spagna elabora un personale processo catartico sotto forma di itinerario sonoro atto a narrare il suo ipotetico ultimo giorno di vita.
Le premesse potrebbero indurre ad immaginare un disco fatto di trame cupe, di atmosfere grevi, ma il pianismo gentile di De Rojas, il suo approccio essenziale alla melodia conduce da tutt’altra parte. A partire dagli echi naturalistici raccolti da Jakob Lindhagen che introducono Amanecer (Prefacio), ciò che si dischiude è uno scenario di delicato incanto incentrato su fraseggi eleganti di stampo classicheggiante che fluiscono pacatamente raccontando attimi di preziosa quotidianità e recuperando frammenti del passato. Fiori secchi raccolti nei luoghi visitati, cartoline di viaggio, un gatto nascosto tra il verde, un bicchiere di vino sul piano diventano immagini di un unico arco temporale in cui gesti e sensazioni rivelano l’importanza di ciò che è stato vissuto. Il suono delle meccaniche, che accompagna il fluire delle note, conferisce a questa preziosa elegia in musica un legame costante con la fisicità, combinazione resa compiuta dal canto di Lo-Fang – autore delle parole – in Holding her is where I learned forigveness, unica traccia non strumentale alla quale il songwriter americano contribuisce ulteriormente suonando il violoncello. Lungo la traiettoria disegnata, nel suo quieto svolgersi contraddistinto da una luminosità morbida, si palesano attimi di momentaneo smarrimento sotto forma di code atmosferiche dissonanti che deformano la purezza armonica dell’insieme. Ma si tratta soltanto di frammenti – come dichiarato dallo stesso De Rojas, musicalmente indice di un futuro sviluppo del suo lessico modern classical – di passaggi contenuti, che si limitano a far risaltare ancor di più la grazia di un itinerario introspettivo intriso di malinconica bellezza.