Teenage Fanclub – Grand Prix

TeenageFanclub_GranPrixFrancesco Amoroso per TRISTE©

La prima volta che ho sentito parlare di Teenage Fanclub è stato nell’autunno del 1990. La radio “libera” dove trasmettevo la prima “incarnazione” de “L’Attimo Fuggente” aveva organizzato una classifica alternativa che andava in onda ogni domenica, condotta da tutti gli speaker dell’emittente (la parola Dj mi ha sempre inquietato, soprattutto dopo “Panic” degli Smiths).

Così, tra una chiacchiera, una telefonata degli ascoltatori, e un risultato di calcio, il nostro pomeriggio passava in allegria e, naturalmente, fioccavano i consigli musicali.
Tutti noi facevamo a gara a scovare nuovi grandi “talenti” da esibire come trofeo.

In quei giorni di settembre, impazzivamo per il nuovo singolo dei Nirvana, Sliver, la svolta “melodica” del giovane trio di Seattle. Ci sembrava di gran lunga il brano più emozionante del momento.

Almeno fino a quando l’amico, di solito “americanofilo”, non ci fece ascoltare Everything Flows degli sconosciuti scozzesi Teenage Fanclub: una ballata power pop, un’ode al trascorrere del tempo, nella quale si intravedevano, pur celati da un suono volutamente sporco, gli anni sessanta della west coast americana, i Beach Boys, i Byrds e i Big Star.

Il tutto condito con quella dose di “grunge”, quasi necessaria in quel periodo. Fu amore al primo ascolto, anche se il resto dell’album convinse poco tutti quanti.
Lo splendido Bandwagonesque dell’anno successivo, poi, accrebbe il mio interesse: dodici canzoni, tutte potenziali hit, ballate chitarristiche vitali e straripanti, dall’impatto immediato.

Il suono degli esordi si era ammorbidito e la vena melodica era in primissimo piano, anche se le chitarre spesso si lasciavano andare a lunghe code rumorose in nome delle vecchie influenze grunge. Per i Teenage Fanclub, in ogni caso, fu l’apoteosi e per me la nascita di un nuovo amore musicale.

Due anni dopo, invece, il pur notevole Thirteen, nonostante canzoni freschissime come Radio o Norman 3, smorzò un po’ i miei entusiasmi (e non solo i miei: la stampa inglese li dava oramai per finiti). Mi sembrava quasi che questa (ennesima) storia d’amore avesse  già dato il meglio di sé. Sbagliavo.

Nel 1995, infatti, gli scozzesi si ripresentarono sulle scene con Grand Prix, un album fantastico, coeso, pulito nel suono (grazie all’eccellente lavoro di David Bianco in regia) e maturo nel songwriting, equamente diviso tra Norman Blake, fino ad allora il principale songwriter della band, Gerard Love e Raymond McGinley.

Difficile trovare un aggettivo diverso da “superbo” per questo album dei Fannies (non mi era chiaro, allora, il senso del divertente nomignolo, ma cominciai ad adottarlo anche io, come segno della mia appartenenza alla schiera dei “veri” iniziati).

TeenageFanclub_GranPrix2Indicativo di tale eccellenza è che il lavoro si apra con About You di McGinley e prosegua con la incantata e melodica Sparky’s Dream di Love e che la prima canzone di Blake giunga solo come terza in scaletta: la straordinaria Mellow Doubt ispirata dall’amore del musicista per la moglie di uno dei tecnici dello studio (storia a lieto fine, a quanto pare).

Chissà se vi è mai capitato che una storia d’amore nella quale il sentimento stia pian piano affievolendosi, si ravvivi, riacquisti il proprio impeto grazie a un episodio inaspettato, magari neanche particolarmente eclatante. Ebbene, tra me e i Teenage Fanclub, Mellow Doubt ha rappresentato proprio quell’episodio: una ballata acustica (la prima nella storia della band) delicata e profondamente sentita che, proprio in quei giorni, avrei davvero potuto scrivere io, se solo avessi avuto le capacità per esprimere i miei sentimenti in quel modo semplice e sublime (“It gives me pain, when I think of you/And the things together that we’ll never do”).

Ancora oggi, a distanza di più di venti anni e con la storia che avrebbe potuto ispirarmi quelle parole alle spalle, quasi dimenticata, ascoltare Mellow Doubt è un tuffo al cuore, una sorta di madeleine che mi riporta ai sentimenti puri e ingenui dei vent’anni.

Non c’era solo Mellow Doubt in Grand Prix: c’era Don’t Look Back, canzone d’amore splendidamente malinconica, o Neil Jung, uno dei titoli più geniali della storia della pop music, nella quale l’influenza del rocker canadese è palese e benvenuta.

Grand Prix fu, senz’altro, il prodotto di una band al culmine della propria capacità di songwriting, il punto più alto di un’evoluzione che ha portato gli (ex)ragazzi di Glasgow dalle litanie proto-grunge degli esordi alla classe cristallina che oramai gli veniva riconosciuta ovunque.

Per me, tuttavia, fu soprattutto il definitivo sugello di una promessa d’amore, il gesto, l’episodio che mi avvinse per sempre a questi scozzesi, musicisti sopraffini e persone vere che negli anni, tra gli inevitabili alti e bassi di qualsiasi relazione, sono stati sempre con me, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, affinché reciprocamente ci amassimo e onorassimo tutti i giorni della nostra vita.

P.S.
A settembre esce un loro nuovo album, splendido, e noi festeggeremo le nozze d’argento (più o meno).

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