Francesco Giordani per TRISTE©
C’è un utile e innegabile insegnamento che chiunque, anche chi non apprezzerà questo nuovo album dei Charlatans (e non sono affatto in pochi), può comunque trarre dal suo ascolto: continuare a fare quello che si ama – e che, per tale motivo, si riesce a fare meglio probabilmente di tanti altri – allunga la vita.
Se infatti penso che il primo singolo dei Charlatans, la mitica Indian Rope, è uscito nel 1990, ovvero la bellezza di ventisette anni fa, e che da allora il gruppo di fatto non si è mai fermato ed ha anzi continuato ad incidere album e a far concerti ai quattro angoli del mondo, ebbene, se penso a tutto questo, diventa per me di colpo sconcertante, ma anche piacevolmente consolante (forse pure un filino commovente…), apprendere che i Charlatans sono ancora qui, oggi, nel cuore sudato e pulsante di quest’afosa estate 2017, a cantare la loro appassionata canzone a chi avrà voglia di stare a sentirla.
E c’è di più. I Charlatans probabilmente non hanno mai suonato così “giovani” e vivi come oggi. Più giovani, a tratti, di tanti, troppi, gruppi che giovani, anagrafe alla mano, dovrebbero esserlo per davvero. E invece…Voglio dire. Guardate Tim Burgess nelle foto e video promozionali di questo Different Days. Al netto della tinta, gli dareste cinquant’anni? Pensate poi che quest’uomo si è concesso il lusso, giusto l’anno scorso, di firmare uno (splendido, a dir poco) lavoro di pop d’avanguardia obliquamente ballabile, in bilico fra colta sperimentazione elettronica e omaggi ad Arthur Russell, scritto a quattro mani con una leggenda come Peter Gordon. Un esempio per tutti…
Ma torniamo a questo nuovo e tredicesimo album dei Charlatans. Potremmo dire: squadra che vince non si cambia. E così i nostri, a poco più di due anni da quel piccolo folgorante prodigio d’ispirazione che fu nel 2015 Modern Nature, rilasciano un album che, proprio con quel Modern Nature, va idealmente a comporre un dittico, diciamolo subito, in sé pressoché compiuto.
Alla batteria, seduti su quel sedile che per anni fu del purtroppo scomparso Jon Brookes, ritroviamo di nuovo (entrambi peraltro in gran spolvero) Pete Salisbury dei Verve e Stephen Morris dei New Order. Numerosi sono tuttavia a questo giro gli ospiti di gran risma. Primo fra tutti Johnny Marr, che, con la sua saettante chitarra, illumina il bel singolo Plastic Machinery (da annotare anche un intervento dell’amico di vecchia data Anton Newcombe dei Brian Jonestown Massacre), per poi sciogliere in una vertigine di languido sogno le trame di Not Forgotten, vetta nirvanica, per così dire, dell’intero album.
Il soul-pop psichedelico della band, sempre cullato dalle liquide tastiere dell’alchimista Tony Rogers, si avviluppa pigramente nel suo arabesco sonoro, allungandosi dall’iniziale saluto al sole nascente di Hey Sunrise fino all’apoteosi floreale di Solutions e Let’s Go Together, passando per l’escapismo balearico di Over Again.
Francamente evitabili, per quanto illustri, gli interludi parlati che, spezzandone la spirale di puro piacere contemplativo, punteggiano la prima parte del disco (si sentono infatti le voci, fra gli altri, di Matt Wagner dei Lambchop e del romanziere Ian Rankin), per poi eclissarsi, certo non rimpianti, nella seconda.
Ma a ripagare dell’attenzione concessa pensa la finale Spinning Out, altra indubbia punta di diamante di questo Different Days, resa più preziosa dalla presenza di un ispiratissimo Paul Weller, co-autore del brano. Più che una canzone, un’assunzione filosofica: “Spinning out/ Just like our dads/ There are doubts/ But I am hoping that they won’t last”.
Certo, i giorni gloriosi di Some Friendly e Telling Stories appartengono ormai ad un passato che da prossimo si è fatto inesorabilmente remoto, eppure… Eppure, questo Different Days, chiudendo una parabola decennale cominciata nel migliore dei modi con Simpatico nel 2006, ci restituisce l’immagina luminosa, a tratti quasi abbagliante, di una band giunta finalmente all’apice creativo della sua vicenda artistica e, soprattutto, umana.