Nomen omen.
Sì, c’è tanta, tanta America in questo disco di Will Graefe uscito per Pretty Purgatory, intesa come spazi rurali immensi, vallate, il mare come meta finale ma che sembra non arrivare mai, chitarre “Americana” a iosa.
Will in realtà non è un prodotto della provincia più profonda USA, come si potrebbe immaginare, ma viene da Brooklyn e ha nel background un’esperienza con la sua band Star Rover, un progetto che riprende intuizioni da ballate ottocentesche riportate in una dimensione più affine al folk sperimentale, oltre ad aver suonato nell’ultimo disco degli Okkervil River.
Lo spirito “sperimentale” dell’altro progetto di Will va per l’appunto ad incontrarsi in North America con quella linea cantautoriale che parte da Dylan per arrivare ai giorni nostri con Sufjan Stevens o Bill Callahan (ecco, se vi piace Smog/Callahan questa è roba che fa per voi).
Linea “classicheggiante” ben inquadrata da Boys (acustica e tappeto di hammond ad accompagnare) o Call Me A Stone (sempre la chitarra di Will in primo piano, ma stavolta a scontrarsi con feedback “sonici” e campionamenti da library music in sottofondo).
Ma anche a controbilanciare il miracolo Blood Feather (indescrivibile bellezza, un pezzo che in molti si sognano di poter comporre) o la psichedelia liquida di The Declining Season (Spacemen 3 che si trasferiscono in Missouri?) o i brevi intermezzi strumentali (ben tre) o le chitarre rusty alla Neil Young di Rest Your Head On The State Line.
Bravissimo Will, ne sentiremo parlare tanto.