Credo che su queste stesse pagine (si chiamano così?) parlai del fatto che la mia canzone preferita degli Ought sia, di base, una canzone molto bella dei Talking Heads, ma proiettata dieci anni avanti.
E questo è un merito, chiaramente.
Ma guarda un po’ che il pensiero ricorrente che ho mentre riascolto per l’ennesima volta questo Room Inside The World sono proprio loro, i Talking Heads.
Nella voce di Tim Darcy, nel mood, nel viaggio sonoro che gli Ought hanno intrapreso e che li hanno portati dalle chitarre più urticanti e i ritmi sincopati dei lavori precedenti a questo bel compendio di storia della musica alternativa ‘80/’90.
Sempre molto banale parlare di disco della maturità, ma la sensazione è che gli Ought, sempre guardando indietro ad un passato più o meno recente, siano davvero arrivati alla consapevolezza di quello che possono creare.
Prendiamo il trittico centrale Desire–Brief Shield–Take Everything: se la prima potrebbe benissimo essere un outtake di More Songs About Buildings And Food (sempre Talking Heads, non li nomino più fino al 2037, giuro), la seconda si muove su sentieri acustico-cantautoriali a fare da preludio a Take Everything che parte sempre in sordina per ingranare in seconda battuta con un riff distorto, una sorta di alternative-prog alla Smashing Pumpkins vecchia maniera, ma pensato e suonato alla maniera degli Ought.
Altro esempio è la chiusura di Alice, dove si avverte un afflato jazz inusuale per la band (l’uso dei fiati ricorre spesso in questo disco).
Se vi piace il pop che prende strade complesse e vorticose (Arcade Fire anyone?) questo disco fa per voi.