Francesco Giordani per TRISTE©
In un periodo di per sé già piuttosto nero per il cosiddetto rock d’arte (o “art rock”, dir si voglia) britannico, un album ispirato come Inside The Rose assume quasi le sembianze di una Speranza, con tutte le maiuscole del caso.
Caduto a brevissima distanza dalle quasi simultanee morti, davvero imprevedibili, davvero strazianti, di Mark Hollis e Scott Walker (quest’ultimo Americano per nascita, ma naturalizzato Inglese quasi per destino), il ritorno dei fratelli gemelli George e Jack Barnett ravviva infatti – e nel migliore dei modi – una certa idea, così profondamente inglese, di quella che, con fare un po’ temerario, potremmo ribattezzare “canzone aperta” e che, con ogni evidenza, molto deve, tra gli altri, ai due nomi illustri citati qualche rigo più sopra.
Il quarto lavoro dei Britannici prosegue dunque le avventurose esplorazioni del precedente – e bellissimo! – Field of Reeds (2013), coniugando fine astrattismo ambient-jazz (non privo di innesti elettronici, anzi) e figure pop tanto aeree quanto sottilmente inquietanti, sulle tracce di una musica “sconfinata” che resta nel complesso fedele al celebre motto dei Puritani “very 1970, but also quite 1610, 1950, 1979, 1989, 2005 and 2070”. E non suoni come una battuta perché, se c’è una cosa che ai due riesce sempre meglio, beh essa è senza dubbio lo scioglimento del tempo in un’(anti)materia inafferrabile e cangiante. Ma più che agli orologi liquefatti di dalidiana memoria si pensi piuttosto ai vertiginosi prodigi quantistici che intitolano la splendida (e iper talktalkiana) Anti-Gravity.
Li si potrebbe definire l’ultimo gruppo autenticamente post-rock o, con uguale ragione, il primo gruppo genuinamente new-rock, questi These New Puritans, se essi non fossero anche, al tempo stesso e senza alcuna contraddizione sostanziale, un piccolo ensemble d’avanguardia (A.R.P), un’impossibile orchestra da camera (Where The Trees Are on Fire e Lost Angel) e una big band di jazz simbolista ad assetto variabile, come anche un consorzio di smaliziatissimi dj e produttori hip-hop (Into The Fire e Beyond The Black Suns) – nonché un’accolita di maghi e alchimisti neo-pagani (Infinity Vibraphones e l’epilogo in odore di liturgia Six – numero già caro ai Mansun).
Ma Inside The Rose è, come detto, un disco che dona alla mente dell’ascoltare la concreta possibilità e, soprattutto, la libertà d’intuire una Grandezza e Potenza ulteriori, una Musica vergine, ancora “da venire”. E del resto il “rubedo”, si legge su Wikipedia, “traducibile con “rossore”, designa in alchimia l’ultima fase della Grande Opera, quella «al Rosso» dopo la nigredo e l’albedo: è il compimento finale delle trasmutazioni chimiche, che culminano con la realizzazione della pietra filosofale e la conversione dei metalli vili in oro. Se la nigredo consisteva nella putrefazione e l’albedo nella distillazione, la rubedo avviene per sublimazione sotto l’effetto del fuoco, cioè dello Spirito. È simboleggiata dalla fenice, oppure da un pellicano, un uovo, un re incoronato o una rosa rossa”.
E se la magia non fa per noi, niente paura: in fondo, rubando il verso ad un’altra rosa (quella di Gertrude Stein), una canzone, è una canzone, è una canzone. Se poi è scritta dai These New Puritans, direi che possiamo farcela bastare.