Francesco Giordani per TRISTE©
Per il suo dodicesimo album in studio Neil Hannon si diverte e non poco a sparigliare le carte, con il solito garbo ma anche tanta malizia. Office Politics, sin dalla copertina, sembra in apparenza riallacciarsi al filone più bizzarramente “umoristico” del Nostro, portato in trionfo nove anni fa dal felicissimo Bang Goes the Knighthood.
Il fuoriclasse nordirlandese, dopo la parentesi simil-fantasy di Foreverland, torna infatti ad assecondare la sua vena più eloquente e giocosa, dilagando (è il caso di dirlo: sessanta minuti per sedici canzoni!) in un album-affresco pieno zeppo di storie, allegorie e personaggi.
La novità maggiore e più sostanziale, ferme restando le ampiamente dichiarate devozioni per Randy Newman, Scott Walker, Burt Bacharach e Michael Nyman, si affida così ad una frondosa, probabilmente mai così densa, varietà di invenzioni e arditi capricci stilistici.
Dal fellinismo di ritorno delle malinconiche Opportunity’ Knox e I’m a Stranger Here, ai Madness in salsa spionistica di You’ll Never Work in This Town Again, dall’iper-glam pompatissimo di Infernal Machines sino alle misure apertamente funky di The Life and Soul of the Party e dell’eponima Office Politics, l’album si avvolge-svolge nel suo variopinto carosello di parole e musiche elegantemente danzanti mano nella mano, lasciando piroettare al centro della ribalta l’estro affabulatorio di Neil Hannon, il suo ingegno di storyteller consumato.
Possibile snodo programmatico di cotanta ispirata e spesso rocambolesca facondia potrebbero essere gli sbilenchi moroderismi, pura archeologia retro-futurista, di The Synthetiser Service Centre Super Summer Sale. Che altro non è se un singolare elenco -Hannon ne ha musicato più d’uno nel corso della sua carriera, d’altra parte- di tutte le maggiori tipologie di sintetizzatori esistenti al mondo, composti in una sorta di volantino pubblicitario (trattasi di una super-svendita estiva, per l’appunto) con sonante font Kraftwerk, corpo dodici. Chi altri, se non Hannon, avrebbe potuto avventurarsi in un simile cimento, traendone materia cantabile?
Andata a scatafascio la Cavalleria o, per meglio dire, quella che un tempo si sarebbe chiamata Gentilezza, a dominare, nelle sempre più amare visioni del Nostro, è soprattutto l’ordinario grigiore di un professionismo blandamente impiegatizio, a tratti chapliniano, tenuto sotto scatto da dispositivi elettronici tanto intelligenti quanto apocalittici e da uno Spettacolo permanente che dissolve in Irrealtà tutto quel che tocca.
Nonostante questo però, come in parte già sperimentato nelle più recenti fantasie dei The Good The Bad The Queen o nel Gruff Rhys di Babelsberg, Hannon si e ci concede ancora un’ultima carta da giocare: la carta del sogno ma soprattutto del ricordo di tempi lontani. Nel caso specifico gli anni spensierati, gloriosi, della prima giovinezza, scanditi dalle puntate di Top of the Pops e dal synth-pop eroico di OMD, Human League, Scritti Politti e Depeche Mode (si ascolti il rosario di band in Psychological Evalutaion), quando “futuro” era ancora una parola romantica.
Così l’ultimo dei Gentiluomini inglesi ci invita a non mollare, facendo appello a quel briciolo di tenera, residuale, umanità che ancora ci rimane in tasca, fra una timbratura di cartellino e l’altra. Ricordiamoci chi eravamo. E, con la forza spericolata dell’immaginazione, proviamo a ridiventarlo di nuovo, per un’ultima volta.