Agnese Sbaffi per TRISTE©
Il 13 marzo è uscito per Secretly Canadian il secondo album dei Porridge Radio, formazione inglese quasi totalmente al femminile guidata da Dana Margolin.
Ascoltavo questo disco già preconfinamento, quando il mondo da piazza Roberto Malatesta in poi potevo vederlo anche non filtrato da uno schermo.
Quando gli sbalzi di umore erano camuffati e riservati, il vicino di balcone apparentemente simpatico e gli appuntamenti al cassone del vetro roba per tossici o alcolisti.
Ah, ma questo è ancora così!
Tutto si amplifica, si drammatizza e si esaspera, ma tendenzialmente le cose sono ancora così, parenti del prima anche se niente sarà mai più come prima.
#Andràtuttobene mentre tutto quello che poteva andare male sta andando male.
Trovo ora ancora più importante restituire un senso a questa antinomia che si riflette, per me (e penso per molti), in leggendari alti e bassi emotivi.
“Forse sono nata confusa e non so che sta succedendo, forse non sta succedendo niente. Sono annoiata a morte, parliamone”.
Non sono parole mie ma è Dana Margolin che canta, quasi grida rabbiosamente, in Born Confused.
“Thank you for leaving me, Thank you for making me happy” ripete ossessivamente nella lunga coda del brano che apre il disco Every Bad.
Un mantra che si oppone sistematicamente a sé stesso ed è nella contraddizione che ritrova il suo significato, sempre diverso e sempre valido. Un crescendo ironico e divertente tra violini, chitarre e potenti legnate di batteria accompagna la voce strozzata della cantante fino alla brusca interruzione, lasciando alla sospensione un’importante chiave interpretativa.
L’audacia postpunk e la tenerezza armonica più pop sono sapientemente mescolate in brani crudi e un po’ spietati, ammorbiditi da litanie perturbanti.
Sulle prime inquieta un po’, dopo poco ci si ritrova a casa. E se le folli schitarrate sembrano suggerire una possibile deflagrazione (Sweet, Don’t Ask Me Twice) alla fine ci si scopre avvitati in flussi di coscienza melodici più intimi.
Come nella gentilissima e riverberata Lilac, o tra le liquide tastiere shoegaze un po’ sognanti un po’ alienanti di Circling e Something. Nelle undici tracce che compongono l’album, il quartetto di Brighton riesce a mantenere un delicato equilibrio tra il piglio ruvido e impetuoso delle chitarre e i complessi arrangiamenti corali dal forte carattere melodico.
Non solo il ricorso alla ripetitività ossessiva ma anche gli psichedelici saliscendi armonici ed emotivi si rivelano molto adeguati alla vita durante il confinamento.
Chiude il quadro una nuova claustrofobica formula magica, ripetuta con l’aggiunta di un vocoder: “There’s nothing inside / There’s… “ (Homecoming Song).
Non c’è niente e c’è: non c’è una risposta univoca plausibile, non c’è una validità monolitica né un hashtag che possa contenerla, ma stiamo tornando a casa.
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