Francesco Amoroso per TRISTE©
“36. Fear of dropping your soda as it hit the ground and fiz on you.
89. Fear of roller skating down hill when you haven’t learned how to stop is scary.”
(Michael Bernard Loggins – Fears of Your Life)
Molto spesso, soprattutto agli albori dell’epopea del rock and roll, giovani e aggressivi PR erano ingaggiati per costruire intorno alle band da lanciare sul mercato una sorta di mito della fondazione. Il momento in cui i membri della band si incontravano per formare qualcosa di speciale doveva essere indimenticabile e significativo. E così incontri casuali in una stazione del treno o banali incontri durante feste parrocchiali si trasformavano in epifanie artistiche nate ascoltando vecchi dischi di rhythm & blues o intorno a un pianoforte sul quale suonare “Long Tall Sally”.
Le cose, in fondo, non sono cambiate tantissimo, anche se la vicinanza agli artisti che i social network ora permettono ha tolto loro gran parte di quell’aura di magia e misticismo infusa nelle rockstar di un tempo.
Eppure un piccolo “mito di fondazione” non si nega a nessuno.
Per il quartetto di South London Dry Cleaning, tuttavia, non è stato necessario chiamare un aggressivo PR (e, comunque, i PR non sono più efficaci come una volta, ammettiamolo).
Il nucleo della band è nato quando gli amici e compagni di studi Tom Dowse, Nick Buxton e Lewis Maynard hanno deciso di collaborare dopo un party a base di karaoke. Le loro esibizioni vocali, però, non dovevano essere state abbastanza convincenti se i tre hanno cominciato a scrivere solo brani strumentali mettendosi in cerca, contemporaneamente, una voce per le loro composizioni.
Anche in questa storia, naturalmente, c’entra il “destino”. Perché non può che essere stato il destino a portare, quasi sei mesi dopo, la sconosciuta Florence Shaw, artista visiva, docente universitaria e ricercatrice di immagini senza alcuna precedente esperienza musicale, a presentarsi a una prova della band con una copia di “Fears Of Your Life” di Michael Bernard Loggins e a leggerne dei brani in maniera causale sopra la musica dei tre amici.
E’ stata, come si dice in questi casi, una folgorazione. Florence è diventata immediatamente la frontwoman (o, come si dice adesso per correttezza la “frontperson“) del gruppo e con le sue parole e, soprattutto, con il suo peculiare stile nel porgerle, ha dato alla musica della band esattamente ciò che era necessario perché l’ennesima band di questo (benedetto) rigurgito post-punk a cavallo tra la fine del decennio scorso e l’inizio degli anni venti (del ventunesimo secolo, naturalmente) diventasse qualcosa di davvero unico e necessario.
L’esordio, nel 2019, è stato fulminante: l’e.p. “Sweet Princess” – nel quel era contenuta quella “Magic Of Meghan” che, ben prima delle recenti e un po’ stucchevoli controversie riguardanti le sfumature di colorito della Duchessa di Sussex, prendeva una posizione netta (seppur in maniera piuttosto ironica: “I fell in love with Meghan so incredibly quickly/ This beautiful woman tripped, and fell into my life/ All the stars were alignedI/ t’s kept the world gripped/ IT WAS JUST AN AMAZING SURPRISE/ You got engaged on the day that I moved out. It’s ok./ She’s a smasher, perfectly suited to the role./Messages from the public: Thank you for all you’re doing, we love you./You’re just what England needs, you’re going to change us.”) – e il successivo “Boundary Road Snacks and Drinks” (poi raccolti in un unico Lp) erano vividi esempi della ritrovata verve del post punk britannico di matrice chitarristica, eppure portavano già in loro il germoglio di qualcosa di diverso, di obliquo rispetto all’ortodossia.
Dopo la firma per la 4AD, poi, la band è stata affidata alle sapienti mani di John Parish (produttore che ha già lavorato con PJ Harvey e Aldous Harding, solo per citare due nomi che da queste parti scaldano molti cuori), e quello che John Parish tocca, spesso, si trasforma in oro.
La sua produzione attenta, senza fronzoli e rispettosa delle caratteristiche della band, ha, così, reso le dieci canzoni di “New Long Leg”, l’esordio della band londinese – inciso, pare, in un paio di settimane la scorsa estate – ancor più ambiziose, complesse e a fuoco rispetto a quelle già notevolissime e decisamente personali degli e.p. d’esordio.
La voce parlata di Florence Shaw richiama immediati paragoni ai Fall e a Patti Smith o alle canzoni cantate da Kim Gordon nei Sonic Youth, ma il post-punk spigoloso, inquieto e asciutto della band che fonde chitarre taglienti a ritmiche nervose, bandendo tuttavia quasi del tutto il feedback, va ben oltre i modelli di riferimento.
I testi spesso sarcastici e sempre affilati, intrisi di contemporaneità, affrontano temi scottanti e attuali, con una tecnica che richiama quella del cut-up e dei poeti della Beat Generation.
Florence si prende e domina sempre la scena, ma le sue parole, nelle quali si intrecciano non sense, frasi d’impatto e osservazioni argute, stavolta lasciano anche il dovuto spazio ai suoni che sembrano nati per sottolineare le ansie frenetiche e la disconnessione della vita moderna.
Cantato a parte, molti dei brani di “New Long Leg” suonano non troppo dissimili a quello che quaranta anni fa facevano i Joy Division o a ciò che offrono adesso i Fontaines D.C., con linee di basso profonde, batteria frenetica, riff di chitarra incisivi e asciutti, eppure è chiaro che i Dry Cleaning stanno facendo qualcosa di distinto, di differente, con i loro giochi linguistici e il loro sardonico e crudelmente sincero sguardo sul presente.
In Scratchyard Lanyard, la voce monotona di Shaw, che scandisce in maniera particolarmente nitida (“Do everything and feel nothing”), evidenzia quanto le parole pronunciate possano suonare diverse a seconda dell’inflessione che usiamo. Le variazioni di significato della semplice frase “You Keep It” sono solo uno degli esempi della maestria con cui viene utilizzata la parola, con risultati spesso privi di un significato palese (ma non per questo meno incisivi): “And Thanks very much for the Twix/ I think of myself as a hardy banana with that waxy surface and the small delicate flowers/ A woman in aviators firing a bazooka”. Se ne può non cogliere a pieno il significato, eppure quella donna in occhiali da sole che spara con un bazooka è un’immagine che difficilmente ci toglieremo dalla testa.
E’ solo uno degli innumerevoli esempi che si possono fare, perché la conversazione che inizia con “Scratchyard Lanyard” continua nelle canzoni che seguono: in “Unsmart Lady” Florence mette su un teatro dell’assurdo con domande e risposte non sequitur, “Strong Feelings”, dice del momento che stiamo vivendo, con poche frasi, più di quanto potrebbe fare un saggio filosofico (“It’s useless to live/ I’ve been thinking about eating that hot dog for hours/ Kiss me … In the painting’s foreground, at the bottom, is a famous anamorph which when viewed sidelong is revealed to be a human skull/ That seems like a lot of garlic/ Long and lean and young and lovely“).
E se a volte il gioco si fa più scoperto, come in Leafy (“What are the things that you have to clear out?/ baking powder/ Big jar of mayonnaise/ What about all the uneaten sausages?/ Clear the fat out of the grill pan/ This is the hardest thing I’ve ever had to do now/ Trying not to think about all the memories/ Remember when you had to take these pills?“) non è affatto meno efficace.
Così, tra osservazioni casuali (“Got my shorts on in preparation for the hot/ these idiots in trousers/ they don’t know what they’re doing”, “Her Hippo”) critiche agli eccessi del capitalismo (“New Long Leg”) improbabili elencazioni di utensili da cucina, con inaspettato effetto drammatico (“In control in the kitchen area/ Spatula pot and crumb tray/ A greaseproof type of thing“, “More Big Birds” nella quale, per la prima volta, Shaw accenna a cantare) si arriva all’ultima canzone dell’album, “Every Day Carry”, sette minuti nei quali il suono della band si fa più denso, più distorto e cupo, così come ancor più stranianti e spiazzanti diventano le parole di Florence (“What a cruel heartless bastard you are“).
C’è molto nelle canzoni dei Dry Cleaning, solitudine, angoscia, paura del presente e del futuro, ma anche voglia e desiderio di affrontare la vita con un divertito distacco, forse l’unica arma (purché non sfoci nel cinismo) che abbiamo adesso a nostra disposizione.
I testi enigmatici e ambigui e i suoni tesi chiedendo all’ascoltatore di assumere un ruolo attivo nell’interpretazione e nell’assimilazione dell’album, eppure “New Long Leg” è indubbiamente un lavoro riuscitissimo che certifica la rapida e clamorosa evoluzione della band di Londra Sud senza che un briciolo della arguzia, della sensibilità e della peculiarità che li ha da subito resi così speciali, venga sacrificato.
Lunga vita al lavaggio a secco.
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