Dry Cleaning – Stumpwork

Francesco Amoroso per TRISTE©

Esistono dischi che, quando li ascolti, si schiudono davanti a te senza fatica, ai quali bastano pochi passaggi per svelare il loro contenuto, per raccontare le loro storie, per sostenere le proprie affermazioni.
Sono quelli che, inevitabilmente, nell’ambito di una cultura di massa totalmente votata al consumo vorace e velocissimo dei prodotti (più o meno) artistici riescono subito a imporsi all’attenzione non solo o non tanto del pubblico, ma soprattutto di una critica sempre più appiattita e conformata al metodo di fruizione dell’arte, fatta di di totale mancanza di confronto e approfondimento e di recensioni brevi e sciatte, che arrivano dopo un paio (e sono ottimista) di ascolti distratti e la lettura, se va bene, di una press release.

Non sto dicendo che questi lavori non abbiano la loro validità e, anzi, spesso è davvero un sollievo ascoltare qualcosa di immediato, semplice e subito gratificante (così come è piacevole poterne parlare, senza doversi ingarbugliare in discorsi complessi che finiscono spesso per sembrare astrusi o supponenti).
Però esistono anche album che non si finisce mai di scoprire, che richiedono tempo e attenzione perché li si possa godere e comprendere a pieno.

Ritengo che una band come Dry Cleaning, nonostante l’apparente immediatezza di alcune canzoni, rientri a pieno titolo in questa seconda categoria e che il suo secondo album Stumpwork sia un lavoro straordinario, interessante, stimolante, eccitante e pieno di idee, suoni e concetti.
Non era facile per Florence Shaw e compagni dare un degno seguito al magnifico New Long Leg eppure, ancora una volta coadiuvati dal produttore John Parish, i Dry Cleaning ci sono riusciti in scioltezza. Anzi sono andati molto oltre.

Stumpwork è stimolante sin dal titolo (uno stile di ricamo dove le figure cucite vengono sollevate dalla superficie del lavoro per formare un effetto tridimensionale) e anche se non si allontana in maniera drastica dai meccanismi che hanno fatto la fortuna del suo predecessore, riesce ad ampliarne ulteriormente stilemi e sonorità, permettendo ai londinesi di sperimentare e muoversi in territori non ancora del tutto esplorati. Il post punk dei due EP d’esordio, già in parte “sporcato” nell’album di debutto da sonorità più varie e articolate, rimane lo scheletro sul quale la band innesta le proprie infinite influenze musicali e lo sprechgesang di Florence Shaw è più sicuro e personale, tanto che c’è qualche accenno di cantato puro. Del resto quando avevo avuto occasione di parlare con loro (in una delle interviste più piacevoli e divertenti che mi siano capitate negli ultimi anni) i membri della band erano stati molto chiari sul fatto che i loro background musicali così diversi e a volte anche confliggenti non erano ancora del tutto emersi e che la loro idea era quella di evolvere e ibridare le sonorità iniziali con elementi eterogenei che avrebbero dato spessore e originalità alla loro proposta musicale.

Detto, fatto, si direbbe. Le canzoni di Stumpwork -se non odiassi certe catalogazioni- potrebbero essere definite jangle pop (Gary Ashby, Kwenchy Kups, Conservative Hell), post rock ambientali (Anna Calls From The Arctic), slacker rock (Icebergs, Driver’s Story), post-punk, naturalmente (Hot Penny Day).
Ma andando un po’ più a fondo ci si rende subito conto che nell’ambito della stessa canzone sono evidenti ardite combinazioni sonore: se ho definito Hot Penny Day un brano post-punk è innegabile che parta come un pezzo funk, con i suoi bassi pesanti, per poi trasformarsi in qualcosa di molto più libero e dai contorni sfumati, grazie all’uso del sax e la title track, se la si potesse ascoltare senza la voce di Shaw, sembrerebbe un ibrido tra gli Smiths e i Bark Psychosis (oddio, ho appena inventato la ricetta per la canzone perfetta?), mentre le chitarre di Driver’s Story sono quelle di un brano shoegaze suonate da una band pavementiana.
Potrei andare avanti all’infinito e sono convinto che chiunque si soffermasse ad ascoltare Stumpwork potrebbe fare lo stesso e trovare suggestioni infinite, combinazioni altrettanto inaspettate e sorprendenti.
Tutto ciò è merito del modo in cui la chitarra così mutevole di Tom Dowse, il basso eclettico di Lewis Maynard e la batteria dinamica di Nick Buxton riescono a cucire attorno alla voce inconfondibile e ai testi stralunati, non-sense e caustici di Florence Shaw, abiti su misura, sempre diversi e sempre perfettamente adatti.

La scrittura di Shaw, poi, sempre costruita su non-sequitur, sprazzi di affilatissimo sarcasmo, giochi di parole e osservazioni acute e solo apparentemente casuali, si è fatta ancora più tagliente e efficace, e il suo modo di porgere, di scandire le parole – che, in alcuni momenti si avvicina quasi ad un cantato – è pulitissimo, perfetto, a tratti inesorabile.
Gary Ashby descritta da Shaw come “un lamento per una tartaruga da compagnia, scappata a causa del caos familiare“, è una canzone dal testo quasi infantile che si sofferma su aspetti teneramente banali (“Have you seen Gary?/ With his tinfoil ball/ He used to love to kick it with his stumpy legs“) ma che contiene anche passaggi sottilmente inquietanti e stranianti (“Are you stuck on your back without me?/ Dogs running free/ Dad’s got blood on his head).
Allo stesso modo, in Kwenchy Kups sembra sentir parlare un’anima candida (“Things are shit but they’re gonna be ok/ And I’m gonna see the otters“) per poi, subito dopo, infrangere ogni possibile songo (“There aren’t any otters“) e No Decent Shoes For Rain potrebbe essere un dialogo sconnesso dettato dal dolore – probabilmente a causa di una recente perdita (“Let’s smoke and drink and get fucked I don’t know/ Let’s eat pancake“, “My poor heart is breaking/ Too big for a large“, “It’s so good to meet you/ But not here/ Not here obviously“) – eppure è anch’essa intrisa di conversazioni dall’apparenza insignificanti (“I’m bored but I get a kick out of buying things/ Autonomy can be found at the shops” “I’ve seen a guy cautioned by police for rollerblading“) e di osservazioni caustiche (“I’ve seen your arse but not your mouth/ That’s normal now“). In Hot Penny Day, che si muove tra osservazioni diaristiche e astrazioni, Shaw afferma, con noncuranza “Our relationship/ Well it’s not what you think it is…” e, poco dopo, “I don’t want to empty your bank account And give you nightmares but/ But we’re in the middle of what they call three ‘financial eclipses’“.
A volte i testi indugiano anche su affermazioni politiche più dirette: “I see male violence everywhere“, canta Shaw in Hot Penny Day, “Nothing works/ Everything’s expensive/
And opaque and privatized
“, dice in “Anna Calls From The Arctic”, “No more police powers” su “Conservative Hell”.
Sono frasi, frammenti che compongono un dialogo, una conversazione con l’ascoltatore che si limita a suggerire molto più di quanto non dica. Narrazioni monche, incompiute, a volte inconcludenti e, anche per questo motivo, terribilmente stimolanti.
Anche qui gli esempi potrebbero essere infiniti.

Sono il connubio e l’equilibrio tra tra testo e suono e la volontà dei Dry Cleaning di non seguire mai la strada più semplice a fare di Stumpwork un album straordinario: se Don’t Press Me è il brano più vicino a una canzone pop che i Dry Cleaning abbiano scritto, con un testo diretto e un ritornello vero e proprio (“You are always fighting me/ You are always stressing me out, don’t press me/ You/ Press me/ Don’t press me“), la band, allora, preferisce tagliarla corta (e suonare il “ritornello” una sola volta) e la canzone si interrompe proprio quando chiunque avrebbe proseguito per una altro paio di minuiti.
All’opposto Liberty Log si dipana, claustrofobica e covando il fuoco sotto le ceneri, per quasi sette minuti, durante i quali, con Shaw che ci intrattiene con osservazioni casuali (“I will risk slow death for Chinese spring roll“, “This seems like a weird premise for a show/ But I like it!” “It’s what money’s for isn’t it?/For spending?“) e i suoni sembrano sempre sul punto di esplodere, mentre si limitano a declinare in una straniante cacofonia.
Tra il flusso di coscienza di Shaw e l’eclettismo sonoro della band, Stumpwork è un album che, se gli verrà dato il tempo e l’attenzione necessari, offre profondità insondabili da esplorare.

Sempre più eclettici, creativi e ambiziosi i Dry Cleaning riescono, senza sforzo apparente, a creare canzoni prive di enfasi eppure potentissime e un mondo sonoro complesso e ruvido ma totalmente ammaliante, nel quale perdersi e ritrovarsi di continuo, alla perenne ricerca di uno sprazzo di significato non solo nei nei testi surreali, feroci e dissacranti di Shaw, ma anche nella vita stessa.
E il fatto che le ultime parole di Florence Shaw siano “For a happy and exciting life/ Locally, nationwide or worldwide/ Stay interested in the world around you/ Keep the curiosity of a child if you can” mi sembrano il suggello perfetto a un album perfetto.

P.s.
L’artwork – del quale Tom Dowse ha detto a Uncut: “I thought it was a really beautiful image with a good sense of humour. Very intimate and quite moving. Then when people started to say it was disgusting, I was like, ‘Oh, really? Are we that prudish about things?
– è comicamente osceno e al contempo morbosamente lascivo. La ciliegina sulla torta.

Un pensiero su “Dry Cleaning – Stumpwork

  1. Pingback: Le firme di TRISTE©: Francesco Amoroso racconta il (suo) 2022 | Indie Sunset in Rome

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...