Francesco Amoroso per TRISTE©
Mi interrogo da tempo sull’attuale utilità della scrittura musicale (definirla critica, da parte mia, sarebbe presuntuoso e fuori luogo).
Esiste ancora qualcuno a cui interessa leggere riflessioni personali e approfondimenti su un album? Esiste ancora un gruppo (anche ristretto) di persone che ascolta la musica con passione ed è interessata a conoscere un’opera in maniera estesa, a apprezzarne e coglierne le sfumature? Ha ancora senso parlare di musica? E come si dovrebbe parlarne?
Nonostante i pessimi riscontri (numeri bassissimi di visualizzazioni sui social e in rete, riviste che scompaiono, radio che chiudono, praticamente nessuna alternativa moderna, come i podcast), mi ostino a credere che, pur con la consapevolezza che quando si scrive e si parla di musica ci si rivolge a un pubblico esiguo e sempre più sparuto, tutto sommato, segnalare nuove uscite degne di nota, condividere le proprie sensazioni, fornire una chiave di lettura, dare anche solo spunti per un approfondimento, sia ancora cosa bona e giusta, anche in un momento di ricambio generazionale, di attenzione minima verso la musica più di nicchia e di spiccata progressiva perdita della capacità di concentrazione in ogni ambito.
In fondo, anche se praticamente tutta la musica (siamo poi proprio così sicuri che sia tutta?) è fruibile con un solo click, è proprio questo eccesso di offerta che richiede una bussola, una mappa – anche disegnata a mano e senza eccessiva perizia – per orientarsi, per scegliere una direzione, un luogo da esplorare.
Ciò detto, forse basterebbe segnalare le nuove uscite degne di interesse (naturalmente a nostro “insindacabile” giudizio) e poi fornire un bel link, al fine di evitare anche la fatica di utilizzare un motore di ricerca, per permettere al fruitore (che deve comunque essere un minimo curioso di per sé) di farsi una propria idea e passare alla proposta successiva.
Se credete che questa sia ormai l’unica funzione di uno “scritto” musicale, non vi resta che andare alla fine della pagina e utilizzare il vostro mouse (o il pollice) per accedere all’ascolto di Candlepower, l’album (o, meglio, il breve mini-album) d’esordio dell’americana Marina Allen. Credo ne rimarrete affascinati. E, comunque, diciannove minuti del vostro tempo potreste comunque spenderli per farvi un’idea.
Se, invece, avete voglia di saperne un po’ di più e di conoscere le sensazioni del sottoscritto, allora proseguite la lettura. Sarebbe interessante, alla fine, dopo aver utilizzato il link a fine pagina, sapere quali sono le vostre sensazioni e qual è il vostro punto di vista.
Candlepower è un lavoro che, sin dalle primissime note, rivendica la propria discendenza dalla tradizione cantautorale folk/pop degli anni ’70, da musiciste quali Laura Nyro, Joni Mitchell, Carole King, Judee Sill e, tuttavia, questo straordinario piccolo saggio di maestria artistica riesce a risultare originale e personale poiché cerca di trovare il proprio posto all’ombra della maestà delle autrici menzionate tentando, al contempo, di aggiungere qualcosa, di fornire la propria visione del mondo.
La prima traccia, Oh, Louise, il brano più immediato e melodicamente riuscito dell’album, parte con dolcezza per poi distendersi e aprirsi: l’alba ci risveglia con la voce sussurrata di Allen e con la sua chitarra pizzicata, invitandoci ad aprire gli occhi lentamente, ma, quasi che il sole abbia raggiunto il proprio apice più velocemente del solito, subentra il ritmo, la chitarra si fa più incalzante, la voce più forte, diretta. E poi, così come è sorto, altrettanto repentinamente il sole tramonta, lasciandoci con uno stato d’animo malinconico, sottolineato da un sax in sottofondo. È una canzone semplice, eppure straordinaria nelle sue variazioni e nelle sue sfumature, nel certosino lavoro di arrangiamento che lascia a Marina Allen (e all’ascoltatore) tutto lo spazio di cui necessita.
Original Goodness (“How do we go through hell and then just go to bed?”) potrebbe davvero appartenere al repertorio di una cantautrice (o di un cantautore) dei primissimi anni settanta, eppure non riesco a pensare a questa affermazione come a una critica: la sua purezza fatta di una chitarra acustica e di una voce in perfetto equilibrio tra distacco ed empatia, ne fanno un brano squisito.
Belong Here si apre con un incalzante contrabbasso e con le parole “California is on fire/ New York is underwater” e il suo tono è ben più inquietante, con un suono di chitarra ricorsivo e un flauto (sintetizzato?). E’ un brano che parla di clima e della paura connessa ai suoi mutamenti repentini, ma ha il grande pregio di non essere scontata connettendo abilmente i cambiamenti climatici con quelli personali (“How do you cope with such limitlessness?”). E se la successiva Sleeper Train (“Oh, how I long to belong to me”) è un altra piccola gemma di pop folk d’altri tempi, cantata da una voce angelica e magnificamente arrangiata (tanto da richiamare alla mente anche la contemporanea Weyes Blood), Believer si immerge nuovamente in un’atmosfera cupa e inquieta, con un cantato decisamente meno disteso alternato a un nervoso recitato e con una esplicita citazione Joni Mitchell, “Don’t you wanna drive around with me?/ Listening to Hejira through a blown-out freedom scheme?”.
Ophelia, più ortodossa, ma decisamente caratterizzata da un’attenta ricerca musicale, ha ombreggiature jazz piuttosto evidenti, eppure riesce a essere immediatamente piacevole e fruibile, mentre la conclusiva Reunion si fa rarefatta e il canto lento si dispiega su risonanti accordi di pianoforte che si guardano bene dal costruire una melodia.
Seppure con questo esordio Marina Allen sia ancora in cerca di una sua voce unica e definitiva, la strada intrapresa è certamente quella giusta. Ci sono, infatti, momenti memorabili (Oh, Louise, Sleeper Train, Reunion), soli splendenti che riscaldano e confortano e che danno la cifra artistica di una musicista che riesce, nel breve volgere di diciannove minuti, a innalzare un altare ai propri idoli musicali e contemporaneamente a consolidare il proprio stile, lasciando spazio per sviluppi eccitanti e ancora imprevedibili.
Qualora non siate convinti (o, più semplicemente, non abbiate alcuna voglia di leggere ciò che ho scritto) potete, comunque, con il link che vi fornisco, farvi la vostra idea.
Sono, comunque, convinto che, nell’arco della vostra lunga e impegnativa giornata, quanto meno ricorderete questi diciannove minuti trascorsi con Marina Allen, come un’oasi di tranquillità, un meritato intervallo nel quale meditare e riposare membra e meningi provate dal logorio e dalla frenesia della vita moderna.
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