
Francesco Giordani per TRISTE©
Bisogna ammetterlo: non tutti (e cominciano ad essere tanti, solo a pensarci) i mesi di lockdown sono venuti per nuocere. La reclusione e il confino hanno permesso anche cose buone. O, almeno, non così spaventosamente cattive.
Tra i frutti meno acri della catastrofe metto dunque volentieri il secondo album di Max Bloom, uno dei pochi manufatti discografici post-pandemici ad avermi integralmente conquistato.
L’Inglese non è del resto quello che si direbbe un novizio potendo vantare almeno due distinte carriere che precedono quella solista principiata con Perfume giusto lo scorso anno. E se dei Cajun Dance Party serbano probabilmente ricordo il sottoscritto e altri ventiquattro lettori sparsi per lo più in angoli remoti del Regno Unito (ma tale circostanza a mio parare non inficia minimamente la sfavillante, quasi impudica, bellezza di Colourful Life, anno di grazia 2008…), un’indubbia e maggiore fortuna ha arriso agli Yuck, quartetto neo noise-shoegazer che seppe farsi amare e non poco per una manciata di fuggevoli anni, durante i quali pareva davvero che la più ortodossa dittatura del proletariato indie fosse finalmente ad un passo dall’instaurarsi in tutto il suo splendore.
Così non è stato e, metabolizzata in qualche maniera la dipartita di Daniel Blumberg (già da qualche anno geniale e affermato cantautore d’avanguardia), gli Yuck si sono sciolti lo scorso febbraio. Proprio mentre Bloom, immaginiamo, era alle prese con la rifinitura delle canzoni di Pedestrian. Che si rivela, già ad un primo ascolto, album ispirato e semplicemente incantevole, figlio agrodolce di mesi trascorsi in forzata clausura a guardare dentro sé stesso, in cerca di quella luce che, malgrado l’implacabile armageddon sanitario in corso, non si spegne mai, come cantava il Poeta.
Bloom è del resto un autore di delicatissima grafia, più contemplativo e liricamente garbato rispetto al cervellotico e umorale ex-commilitone Blumberg; il suo canzoniere, già dall’inaugurale ed eponima Pedestrian, asseconda un’innata vocazione per oniriche ballate midtempo, che l’Inglese ama inzuppare in melanconici quanto raffinatissimi beatlesismi, sicuramente memori di Elliott Smith ma con rimandi sparsi anche ai più recenti Bill Ryder-Jones e Real Estate. Bellissime in questo senso Palindromes, All The Same, Imposter Syndrome, The Weatherman e Under Green Skies (che ruba l’arpeggio decisivo a Reckoner dei Radiohead).
Sì, più ascolto Pedestrian e più me ne convinco: i mesi che ci siamo appena lasciati alle spalle non sono andati interamente sprecati. Qualcosa sta sbocciando, qualcosa è già sbocciato. E Max Bloom, con quel cognome, è pronto a dimostrarlo.