Francesco Giordani per TRISTE©
Devo ammettere di aver scritto già tanto su Hayden Thorpe e sui suoi Wild Beasts, in ormai quasi vent’anni di ininterrotti ascolti e frequentazioni per così dire sonore. In un paio di casi, ad onor del vero, addirittura personali.
Nel 2010, nelle vesti di eccitatissimo corrispondente romano per conto di una rivista che ancor oggi potete trovare in edicola, seguivo non ricordo più quale edizione della rimpianta rassegna M.I.T. Meet in Town all’Auditorium Parco della Musica. Imbattutomi casualmente in un danzante Thorpe, abilmente mimetizzato nella folla grazie ad un cappellino di lana – la breve ma folgorante esibizione della sua band era terminata pochi minuti prima nella sala Teatro Studio – non ebbi un solo istante di esitazione nel riconoscerlo, chiedendo e ottenendo autografo in criptica grafia (l’alcool o chissà che fluido mistico era probabilmente già entrato in circolo) su una Moleskine rossa da cronista rampante che ancora conservo.
Appena un mese dopo avrei rincontrato (e di nuovo riconosciuto, impresa ancor più eroica) lo stesso Thorpe, appeso alle maniglie di un vagone della metropolitana di Barcellona, in compagnia del resto della band. I Wild Beasts avevano trionfalmente performato il giorno avanti sul Pitchfork Stage del Primavera Sound e un secondo autografo si stampava, accompagnato da qualche chiacchiera a tema vacanziero, sulla mia Lonely Planet pronta alla bisogna. Quando si dice il destino.
Del concerto allo Sziget Festival nel 2014 ho già abbondantemente riferito, dunque non mi resta che concentrarmi sul secondo disco dell’Inglese, che giunge alla pubblicazione sempre per Domino a due anni dal bello ma non troppo fortunato esordio solista Diviner. Moondust for my diamond, si apprende, è un lavoro che Thorpe ha scritto e inciso in larga parta durante i mesi pandemici nella natia contea di Cumbria, a ridosso di quel Lake District National Park che un’impronta ai limiti del pittoresco aveva saputo lasciare soprattutto sugli immaginifici prime tre album dei Wild Beasts. Non per niente, oltre al fido Bullion, ritroviamo in consolle Richard Formby, che proprio sul suono di quegli album aveva lavorato.
A tal proposito, nel contesto di una densa e bellissima intervista rilasciata allo Yorkshire Post, Thorpe dichiara “The truth is I find myself far more interesting in these landscapes than I do in other atmospheres because of the effect being in this space has on me. And also it’s a lifetime’s work just to honour a small patch of woodland or a certain mountain, really you can never quite grasp it, it’s different every time you return to it, and that’s constantly inspiring.”
Più elettroniche e imperniate su beats, sequenze e synth atmosferici (laddove il precedente lavoro prediligeva ballate per lo più pianocentriche, con la voce a costruire trama e scenografie), molte delle nuove canzoni sono, già ad un primo ascolto, tra le migliori mai uscite dalla penna dell’Inglese: Metafeeling, Golden Ratio, Parallel Kingdom, Supersensual, Runnaway World tradiscono una grana sonora di sottilissima ricchezza cromatica, che idee melodiche davvero mai banali lasciano sviluppare in un movimento organico, fluido, naturale, a suggerire grandi spazi inviolati dove l’immaginazione possa tornare a respirare “cosmicamente”. Del resto un’interrogazione incessante della Natura, del suo segreto, dei suoi misteri, ai limiti del divinatorio, agita da sempre le ricerche filosofiche di Thorpe, come ben rappresentato dall’allegorico video di Golden Ratio. “A kind of simple devotional song to science.”, l’ha definita Thorpe, che aggiunge “I see music very much as a replication of nature, the shapes and patterns that we perceive in music are found in all kinds of things like flowers and shells. Science and mathematics have allowed us to decipher this hidden order. Writing songs therefore becomes less about summoning from within and more about noticing what’s already there.”
Questo percorso ha peraltro condotto Thopre a sperimentare, in sede compositiva, tecniche di respirazione consapevole, sulla scorta degli insegnamenti di Richie Bostock, che sono poi sfociate in alcune esibizioni con pubblico “sdraiato” dagli esiti spesso imprevedibili (la speranza remota è che arrivino anche dalle nostre parti…).
Quale che sia il valore o il significato di tutti questi elementi, ad accumunarli è il senso profondo di un viaggio (auto)conoscitivo che chi segue l’Inglese dai tempi dei Wild Beasts non fatica, se non a capire, almeno a “sentire”.
Come tutti i veri viaggi, anche questo è passato attraverso scioglimenti, cicli di morti e (ri)nascite simboliche, e ha infine dischiuso, nella perenne metamorfosi, nuovi livelli di coscienza e una percezione più ampia di sé e del mondo.
Di tutto questo canta e parla Moondust For My Diamond e nell’esserne grato ad Hayden Thorpe vorrei tanto potergli chiedere un terzo, ultimo, autografo. Stavolta direttamente sul cuore.
(https://haydenthorpe.bandcamp.com/album/moondust-for-my-diamond)
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