
Francesco Giordani per TRISTE©
Confesso di non essermi ancora del tutto ripreso dal trauma degli Aisis. Sì, siamo d’accordo, una band di “umani” (che sofferenza dover mettere queste virgolette) ha composto le canzoni di The Lost Tapes e le ha pure suonate, lasciando all’intelligenza artificiale il solo compito di cantarle alla maniera di Liam Gallagher, com’è noto.
Vi sfido a distinguere uno qualunque di questi brani (peraltro filologicamente ben contraffatti) da un’ipotetica b-side perduta del primo repertorio oasisiano. Siamo onesti: è quasi impossibile smascherare il falso, discernerlo dal vero; e quel “quasi” diventa ogni giorno più esiguo, impalpabile, inconsistente.
Quando lo scorso anno, al momento di stilare la mia classifica, indicai in Midjourney il “personaggio” del 2022, non potevo certo immaginare che l’evoluzione delle intelligenze artificiali, già all’epoca impressionante, si sarebbe poi rivelata così rapida e capillare, tanto da rovesciarsi in territori, come appunto le arti, che fino a ieri reputavo (a torto, lo ammetto) drasticamente, impermeabilmente umani.
Nel constatarlo oggi, mi assalgono pensieri degni dell’ultimo irresistibile Nanni Moretti, pensieri che si acquattano negli angoli bui del cervello, sussurrando che forse siamo davvero alla “fine di tutto”, alla fine dell’amore, della politica, del cinema, dell’arte, forse anche della musica, almeno nella forma in cui l’abbiamo conosciuta, amata, idealizzata. Quindi delle due l’una, seguendo l’affascinante parabola del film morettiano: o uno si toglie di torno (più o meno metaforicamente) oppure si adegua con fatica al nuovo corso delle cose, accettando al limite di riscrivere, solo per sé, il finale della Storia, rifugiandosi nei funambolici “se” del circo dell’immaginazione.
Magari mentre là fuori, a pochissimi centimetri dalle nostre orecchie, nel brutto e feroce mondo reale, inizieranno ad uscire “nuovi” dischi dei Beatles, dei Doors, dei Queen o di tutti e tre assieme… Di recente il bravo Lucio Corsi, parlando del suo ultimo La Gente che Sogna (sarà un titolo casuale?) ha dichiarato: “(Il Glam Rock, ndr) è uno scappare dalle nostre vite tristi per rifugiarci tra le stelle e nei sogni. È una protesta onirica. Io voglio essere ingannato dalla musica, perché se mi descrive esattamente i problemi del mondo, che già tutti vediamo da soli, che palle!”.
Tuttavia mentiremmo se non rammentassimo l’esistenza di una terza via residuale. Quella cioè di infischiarsene di letture e controletture apocalittiche e di continuare a fare quel che si è sempre fatto, indipendentemente dal successo dei suoi esiti, per la felicità e per il puro, debordante, sentimento di vita che riesce ancora a donare. Che è poi la lezione più preziosa di An Inbuilt Fault, secondo album in studio di Westerman.
L’Inglese, oggi di stanza ad Atene, dà seguito al folgorante esordio Your Hero Is Not Dead del 2020 con un pugno di canzoni scritte in gran parte in Italia durante i giorni più duri della pandemia. Se per il precedente disco William Westerman si era affidato alle cure di Nathan Jenkins (ovvero Bullion, magister del miglior pop indipendente concepito in questi anni nel Regno Unito, vedi Orlando Weeks, Hayden Thorpe, Nilufer Yanya), per questa sua nuova creatura ha scelto come co-produttore James Krivchenia, già batterista dei Big Thief. Il risultato è un lavoro che, muovendosi nel solco di un moderno cantautorato post James Blake/ Bon Iver, sboccia a poco a poco, senza fretta, inseguendo, più che l’esercizio di un’arte della canzone vera e propria -del resto già brillantemente dominata in Your Hero Is Not Dead-, la via della ricerca, della destrutturazione formale, della digressione, dell’elegante pennellata impressionista e della paziente esplorazione cromatica del “suono”. Un po’ Peter Gabriel un po’ Arthur Russell un po’ anche Mark Hollis, Westerman si avventura nel romanzo abissale della propria umanità, cercando un senso della realtà e una realtà del senso, schivando paure, cavalcando sogni e ispirazioni improvvise, eludendo incertezze, sempre equipaggiato di quel suo ormai caratteristico “sentimentalismo concettuale” (se mi passate la turpe definizione) che riluce in brani notevoli come Take, CSI: Petralona, Idol: RE-Run o I, Catullus.
Ed è proprio questo inquieto trambusto a conferire a An Inbuilt Fault una specialissima vibrazione epica, da racconto picaresco, da minima Odissea (viste anche le passioni elleniche del Nostro) per voce chitarra e synth.
An Inbuilt Fault è un “viaggio dell’eroe” che rimane aperto, a tratti quasi irrisolto, e che, esattamente per questo motivo, nessuna intelligenza artificiale potrebbe mai imparare a immaginare.
O almeno questo è l’auspicio di chi vi scrive.