Francesco Amoroso per TRISTE©
Prima di decidermi a scrivere queste parole, sono andato a (ri)studiare la definizione di “conflitto di interessi” e mi sono reso conto che, almeno tecnicamente, ciò che mi sto accingendo a fare non è riconducibile in alcun modo a quella fattispecie.
Non esercito funzioni pubbliche e Triste© non è tenuta (tenuto?) a perseguire e/o curare interessi pubblici senza condizionarli.
Ciò non toglie che un pochino in colpa mi senta. E’ la prima volta, da quando insieme ad Alessio ed Emanuele abbiamo dato vita a quell’innocente divertimento che è A Modest Proposal, che mi permetto di parlare di un artista che fa parte del nostro catalogo.
Seppure non si possa configurare alcun conflitto di interessi, ma, più probabilmente, solo un uso privato della cosa… privata, mi è sempre sembrato un po’ scorretto e ho sempre ritenuto che parlare di artisti o dischi “nostri” mi mettesse a rischio di perdere quel poco di credibilità che in tanti anni di scrittura musicale mi sono faticosamente guadagnato (sempre che me ne sia guadagnata).
Ma per Louise Weseth ho deciso di rischiare.
Nel Paese delle conventicole e dei rapporti basati solo sulle conoscenze e sull’amicizia, anche nel campo ristrettissimo della scena musicale indipendente ci conosciamo un po’ tutti e siamo i soliti quattro gatti a cercare novità, scrivere recensioni, ascoltare artisti emergenti, organizzare per loro i concerti, pubblicare i loro album. Che qualcuno di questi ruoli si potesse sovrapporre era quasi inevitabile che prima o poi accadesse.
Così quando mi è stata segnalata (da Alessio) la giovane cantautrice norvegese Louise Weseth (nata e cresciuta a Horten, cittadina norvegese affacciata su un meraviglioso fiordo a 2 ore di macchina da Oslo, recita la sua biografia) mi sono subito innamorato della sua voce e delle sue diafane canzoni e ho pensato di scriverne, di segnalarla a chi, bontà sua, segue i miei consigli musicali. Poi, per una serie di fortuite e fortunate circostanze, con A Modest Proposal, siamo riusciti a distribuire in Italia il suo e.p. d’esordio, Woodlands, ma la mia voglia di parlarne, di farla conoscere e raccontarla è rimasta.
Non credo, quindi, che raccontare Louise e la sua musica possa essere visto come un’autopromozione o, peggio, una “marchetta” ma, come dicevo, per Louise, correrò il rischio.
Lo faccio perché quello che Weseth dice lo sento molto vicino a me, anche se ci dividono tanti anni e tanti chilometri (“We drive so fast/ in our brand new cars/ admiring the landscapes/ only from afar/ whatever is new/ will soon be old/ oh, how I truly despise/ this speed we’re constantly increasing” canta in Retrograde) e perché ogni volta che ascolto la sua voce rimango ammaliato e, nonostante l’apparente semplicità delle sue composizioni, mi bastano poche note per chiudere gli occhi e essere trasportato in un luogo dove il tempo scorre a una velocità diversa, dove anche i drammi e il dolore possono essere affrontati senza affanni, dove non ci è richiesto di essere altro che noi stessi (“Take me somewhere/ our fears won’t reach us/ we’re not getting older just yet/ you dont have to be in your prime yet/ you don’t have to be anything/ you don’t have to be anything/ yet“).
C’è un impalpabile tappeto di elettronica sul quale si adagia questa voce fragile ed espressiva e le sonorità dream pop, incantevoli e serene, si fondono con estrema naturalezza con la chitarra acustica a formare un tessuto serico e lucente che avvolge e preserva le canzoni di Woodlands. Ascoltate il piano che punteggia Take Me Somewhere, il violino che caratterizza Moon o il delicato fingerpicking che apre Retrograde e percepirete una carezza leggera, un tenero e caldo abbraccio.
Non fraintendetemi, però, perché nelle note dell’esordio di Louise Weseth non c’è solo musica folk morbida e sognante, ma qualcosa di diverso, qualcosa di più, un mondo musicale nel quale ci si può trovare a proprio agio e, allo stesso tempo, perdersi irrimediabilmente.
Per comprenderlo basta ascoltare la title track, ispirata a una poesia di Henry Wadsworth Longfellow, con i suoi arrangiamenti orchestrali lussureggianti e romantici e le sue atmosfere fiabesche e vagamente inquietanti (“the sun shines on your golden hair/ your cheek is glowing fresh and fair/ with flaunting feathers,/ we refuse to come down/ so I follow you/ through the woodlands and the meadows“), ma tutto Woodlands sembra sospeso in un altrove dove i sensi sono più acuti (“you kiss my cheek and say goodnight/ a foreshadowing of some other night/ I close my eyes to only sense/ and only think in present tense/ tonight I think that we might dream the same dream/ independent as I am/ I surrender/ to the only company/ I like better than my own“) e i sentimenti più struggenti e impetuosi (“we’re on the deep waters, babe/ swimming is tough but as least it/ would make us less lonely“).
Il mini-album raccoglie cinque brani malinconici, fluttuanti e articolati, i cui arrangiamenti sposano il classicismo con le sonorità più attuali di artiste come Agnes Obel o Daughter. Louise Weseth non è una cantautrice con la chitarra a tracolla e una manciata di brani dalle scarne impalcature acustiche, ma un’artista che, seppur appena ai primi passi nel mondo musicale, ha già una propria personalità e un’idea molto chiara del proprio percorso artistico e che abbina a un songwriting già maturo, uno spiccato talento per gli arrangiamenti e la produzione.
Credetemi (anche stavolta).
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