Francesco Amoroso per TRISTE©
“They say you know nothing at eighteen. But there are things you know at eighteen that you will never know again.”
(Andrew O’Hagan, Mayflies)
Dubito che i giovani componenti del trio di South London Honeyglaze siano ancora diciottenni, ma questa frase, pronunciata dal protagonista del magnifico romanzo di Andrew O’Hagan, Mayflies (in italiano “Effimeri”), mi sembra riesca a contenere in sé praticamente tutto quello che c’è da dire sull’esordio di questa band di giovanissimi.
Nati in piena pandemia, gli Honeyglaze non hanno avuto molte opportunità per suonare dal vivo e sono entrati in studio privi dell’esperienza live che di solito caratterizza il percorso artistico delle band indipendenti d’oltremanica. Eppure nell’album d’esordio, omonimo -come si faceva una volta- riescono a essere coinvolgenti, energici e vitali e a sprigionare tutto il loro talento con grande sicurezza e personalità.
Nati intorno alla volontà della cantante e chitarrista Anouska Sokolow (che aveva già precedenti esperienze con i Tugboat Captain) di non voler essere una solista e completati dal bassista Tim Curtis e da Yuri Shibuichi alla batteria, gli Honeyglaze si sono incontrati e immediatamente (la leggenda racconta che si conoscessero da soli tre giorni!) hanno esordito dal vivo al The Windmill di Brixton. Nemmeno un anno e mezzo dopo, quando il loro nome cominciava a girare nel circuito londinese, è scoppiata la pandemia e il massimo che la band ha potuto fare, a quel punto, è stato registrare, nel garage di un amico, una sessione dal vivo di trenta minuti che avrebbe dovuto permettere loro di partecipare al “FarmFest 2020” (evento che, naturalmente, non si è tenuto a causa del prolungato lockdown).
Ma, come si dice, la fortuna aiuta gli audaci e la registrazione ha colpito il guru della scena underground di South London, quel Dan Carey che, con la sua Speedy Wunderground, ha portato alla ribalta alcuni tra i nomi più chiacchierati del panorama indie attuale (Squid, Black Country New Road, Black Midi, The Lounge Society) e ha prodotto artisti di peso e successo (Fontaines D.C., Kae Tempest, Wet Leg, Geese, Goat Girl).
Carey è rimasto così colpito dalla personalità della band e dal songwriting della Sokolow che ha deciso di portare subito il trio in studio, pur senza averli mai visti suonare dal vivo. Ci sono voluti, poi, quasi due mesi di prove e tre intensi giorni di registrazioni per avere le undici tracce che sarebbero diventate l’album di debutto di Honeyglaze.
Album che, come è d’uopo, non ha visto la luce immediatamente, ma che è stato preceduto da alcuni singoli per stuzzicare l’appetito di tutti coloro che seguono la scena indie anglosassone. Burglar, in particolare, il primo singolo che la band ha fatto uscire, è un pezzo clamoroso: cupi, minacciosi e vagamente progressivi, i suoi sei minuti concedono agli Honeyglaze di mettere subito in chiaro come ci si trovi di fronte a una band che non ha paura di osare, flirtando con il post rock e con il post punk – ma anche con il Kraut-Rock – senza dimenticare un approccio melodico.
Honeyglaze, così, è arrivato accompagnato da una certa aspettativa, ma, complice anche la produzione asciutta, accurata, pulita e mai invadente di Dan Carey – che riesce a mettere in evidenza ogni singolo strumento senza per questo sacrificare l’amalgama sonoro – non la tradisce affatto.
Partendo da un’attitudine prettamente DIY, quasi cantautorale, le sonorità degli Honeyglaze si sono evolute verso un rock chitarristico introspettivo e oscuro e gli undici brani che compongono Honeyglaze spaziano tra ballate soffuse e cupe, caratterizzate da una carsica inquietudine (Burglar, Half Past, Childish Thing), brani solari ed immediati, spesso venati di sottile ironia (Shadows, Female Lead), cavalcate malinconiche e sognanti (I’m Not Your Cushion) e momenti ritmicamente sostenuti (Creative Jealousy) nei quali le tastiere vintage si intrecciano a linee di chitarra rarefatte.
Basterà il lento, disturbato e oscuro brano d’apetura, Start, che si stempera nella lucentezza e nella ritmica pulsante della successiva Shadow, con la sua melodia dolciastra e le chitarre jangle, per comprendere che classificare gli Honeyglaze, inserirli in una nicchia, riferirsi a loro come alfieri di un genere musicale specifico, è quasi impossibile.
E se questo può essere, in qualche modo, un problema per una band giovane che ha necessità di dare dei punti di riferimento all’ascoltatore, ebbene è la voce inebriante, melodica e piena di personalità di Anouska Sokolow a conferire compattezza e coerenza all’album: in 38 minuti, indifesi, ermetici e divertenti in egual misura, gli Honeyglaze si mettono a nudo con coraggio e un’attitudine che si può avere solo quando si è davvero giovani. Per citare ancora O’Hagan e il suo Mayflies “If being young is a crime scene,” I said, “the evidence from that night is everywhere“.
Emergono dalle parole di Sokolow l’insicurezza, l’inadeguatezza (“All my friends are so talented, sometimes it gets to me/ I can’t shake this feeling of inadequacy” – Creative Jealousy“), le incertezze tipiche dell’adolescenza (“Air conditioned Sunday scents/ Filled with paint and wet cement/ I think of all the childish things I’ve said/ And I don’t want to lay in bed, getting lost inside my head/ I think of all the childish things I’ve said” – Childish Things), ma anche la sfrontatezza che la caratterizza (“I know that I look seventeen/ I know that I’m no beauty queen/ It might come as a surprise/ That I don’t like being patronised“, Young Looking) e traspare dalle note degli Honeyglaze, un’adorabile vulnerabilità, una schiettezza che sarebbe errato confondere con l’ingenuità, ma che della parte più sana dell’ingenuità si nutre.
E’ questa freschezza, questa capacità di trasmettere l’urgenza e l’avventatezza della gioventù, insieme alla notevole capacità di scrivere canzoni mai banali (si veda lo sviluppo della conclusiva Childish Thing o i passaggi destabilizzanti della breve ed efficacissima Half Past), il maggior pregio di un album che, con canzoni come Burglar, Young Looking e Childish Thing, mi fa credere che il futuro sia nelle loro mani, soprattutto se Sokolow e compagni riusciranno a non dimenticare tutte quelle cose che si sanno solo a diciotto anni.
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