Francesco Amoroso per TRISTE©
Siamo abituati a pensare che il tempo sia galantuomo, che ristabilisca la verità, ripari i torti e rimetta a posto tutte le cose. E liberarsi di questo costrutto mentale è difficile. Eppure la realtà ha più volte confutato in maniera evidente questa affermazione. Non sempre il trascorrere del tempo ha ripagato, ha guarito le ferite, ha restituito quanto era dovuto, anzi, il più delle volte ha solo acuito le tensioni, inasprito le recriminazioni, esacerbato gli animi. Nella migliore delle ipotesi ha portato all’oblio.
Invece continuiamo a prendere ad esempio le rare volte in cui il tempo ha portato giustizia e ristoro e le eleviamo a paradigma. Il tempo, evidentemente, ha degli ottimi PR.
Questo preambolo un po’ astruso mi è balenato alla mente subito dopo che, riflettendo sullo strano percorso di un genere musicale da me particolarmente amato (anche per ragioni anagrafiche), mi è venuto in mente che il tempo è stato, nei confronti dello shoegaze, in effetti galantuomo.
Alla fine del secolo scorso, lo shoegaze (che, per chi ancora non lo sapesse pare prenda il nome dall’abitudine delle band di questa scena di guardarsi le scarpe mentre suonavano: in realtà, vista la quantità di pedali che usavano, l’esigenza di guardare per terra durante i concerti era molto più una questione pratica che un’attitudine estetica) sembrava davvero finito -del resto, neanche nei primi anni novanta era mai stato particolarmente amato dalla critica- schiacciato dal Grunge e dal Britpop, sembrava ormai un relitto del passato, con la maggior parte dei gruppi che si erano sciolti e i My Bloody Valentine, pionieri involontari del genere, scomparsi, forse in qualche studio di registrazione -dal quale sarebbero usciti, una sola volta, dopo più di venti anni.
Nessuno, almeno al di fuori del più oscuro underground, sembrava interessarsene più e, soprattutto, nessuna band sembrava minimamente influenzata da quel suono (che, giova ricordarlo, aveva sfornato alcuni capolavori adesso riconosciuti, ma all’epoca ampiamente sottovalutati).
All’imporvviso (non così all’imporvviso per chi guarda e ascolta con attenzione, a essere sinceri) a partire dalla seconda metà degli anni dieci del ventunesimo secolo soprattutto negli Stati Uniti, sono cominciate a fiorire band chiaramente influenzate dalle sonorità dello shoegaze e, addirittura, formazioni che quel suono lo riproponevano quasi pedissequamente.
Noi “veri” appassionati del genere per un po’ abbiamo storto il naso, poi, pian piano, ci siamo resi conto che lo shoegaze stava diventando solo un pretesto, un approccio sonoro attraverso il quale molti giovani artisti riuscivano non solo a esprimersi, ma a portare avanti idee nuove, nuove commistioni e a creare canzoni e album validissimi, originali e genuini.
Le numerose ristampe e le reunion (quella degli Slowdive, naturalmente, ma anche di tante band minori, e il ritorno dei MBV) hanno fatto il resto. La nascita di etichette come la Sonic Cathedral e la Club AC30, le contaminazioni tra shoegaze e altri generi (addirittura il metal più estremo e l’elettronica -cosa che gli ultimi Slowdive avevano già fatto nel magnifico e, allora, bistrattatissimo Pygmalion), dimostrano come questo genere (stile?) sia risorto dalle sue stesse ceneri o, per ribadire il concetto confutato all’inizio, come con lo shoegaze il tempo sia stato decisamente galantuomo.
Mi rendo conto di essere arrivato al quarto paragrafo e di non aver ancora nominato l’oggetto di queste mie sconclusionate parole, ma l’introduzione mi è sembrata doverosa visto che ogniqualvolta si parla degli irlandesi Just Mustard si tira in ballo lo shoegaze che, a mio modesto avviso, può avere a che vedere con i suoni articolati e oscuri dei ragazzi di Dundalk, solo nei termini appena sopra accennati.
Con il loro debutto del 2018, Wednesday, in effetti i cinque irlandesi si erano proposti come rivisitatori dello shoegaze più aggressivo, seppure ibridandolo con elettronica e ritmi trip-hop, ma il nuovo album Heart Under porta questo atteggiamento sonoro su un altro livello.
Del resto il periodo di gestazione per il difficile secondo album è stato lungo e complicato (e l’esposizione, dovuta al contratto con la Partisan e ai numerosi concerti con i conterranei Fontaines D.C. deve aver portato ulteriore pressione sulla band). Il materiale di Heart Under è stato oggetto di meticolose modifiche e ri-registrazioni, che sono durate circa un anno, prima di raggiungere la forma attuale.
Il suono del quintetto di Dundalk si è fatto così sempre più oscuro, più sperimentale e stimolante, lentamente spostandosi verso toni più pesanti e rumorosi, arricchendo e, in qualche modo, superando progressivamente le sonorità del debutto.
Heart Under convoglia, nei suo i dieci brani, che si susseguono senza requie in un crescendo di tensione, atmosfere obnubilanti e abbacinanti e lo shoegaze, certo presente, è sovrastato da un post-punk rallentato, marziale e pieno di riverbero.
E’ la voce sottile e infantile di Katie Ball -che richiama da vicinissimo il cantato di Alison Shaw dei compianti Cranes- che riesce a essere carezzevole e seducente e, al contempo, inquietante e minacciosa, a conferire vigore e afflato lirico a questa miscela sonora che estrae dai generi di riferimento una materia sonora originale e magmatica, disturbante eppure inebriante, costruita su chitarre distorte e trattate, corpose linee di basso e una batteria ossessiva e rocciosa.
Heart Under parte con il ronzio di una sirena da nebbia in 23 e si chiude con il tormentoso feedback di Rivers e, nel mezzo, troviamo la angosciosa luminosità di brani come I Am You, una sorta di carezza ad alto voltaggio, con una batteria martellante e il rumore delle chitarre che cresce lentamente mentre Ball intona quasi ossessivamente “Can You Change My Head?“, prima che il feedback la travolga, Early, con il suo riverbero sognante, triste e trepidante, l’immota agitazione di Blue Chalk, o In Shade, nel quale Ball dimostra tutto il proprio talento canoro, abbracciando registri diversi con maestria e trasporto. Che si tratti del mondo che scivola oltre il suo riflesso (Mirrors) o del rimpianto per non aver saputo prendere il destino nelle proprie mani (Rivers) le composizioni dei giovani irlandesi dimostrano quanto la band sia cresciuta e divenuta abile nel padroneggiare la tensione sottesa a ogni passaggio sonoro.
Autoprodotto, ma molto sapientemente mixato da David Wrench (che ha prodotto di tutto: da Caribou a The XX, fino a Frank Ocean), Heart Under è un album riuscitissimo e originale che, nonostante la complessità, ha un deciso afflato melodico e si muove, sinuoso ma deciso, tra atmosfere in bilico tra il sogno e l’incubo, con trame sonore che partendo dagli stilemi dello shoegaze, flirtano con il gothic, il trip hop, l’elettronica e l’industrial, rendendo i Just Mustard alfieri di una musicalità atipica che cerca bellezza nell’oscurità e nelle dissonanze.
Forse, per rispondere alla mia stessa domanda iniziale, il tempo è galantuomo solo con chi ha la capacità di comprenderne e accettarne lo scorrere e che, invece di lasciarsi perseguitare, rimpiangere il passato e tentare con frustrazione di riviverlo, lo elabora e ne fa tesoro per guardare avanti. I Just Mustard hanno dimostrato di possedere questo dono, questa capacità e Heart Under è un album che, partendo da sonorità del passato, viene a patti con il tempo e interpreta i nostri giorni con vitalità e audacia.
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