Francesco Amoroso per TRISTE©
A ciascuno il suo mestiere. Ognuno di noi dovrebbe avere l’intelligenza di dedicarsi soltanto a ciò che è in grado di fare bene, che sia per predisposizione o per studio. L’improvvisare un mestiere non porta a nulla se non a invadere campi che non sono di propria competenza, con risultati spesso disastrosi.
E’ un concetto che attraversa secoli e paesi: “Ama il modesto mestiere che hai imparato e accontentati di esso” diceva Marco Aurelio, mentre il filosofo scozzese Thomas Carlyle sosteneva che “Blessed is he who has found his work; let him ask no other blessedness.“.
Nel mio piccolo ho sempre sostenuto che un commercialista non dovrebbe mai mettersi a scrivere un contratto, così come per un ingegnere sarebbe opportuno evitare di occuparsi di architettura (dimenticando, in questo caso, che gli ingegneri, di solito, sanno tutto!).
E’ con tutti questi preconcetti nella mente che mi sono avvicinato al primo lavoro collaborativo tra l’attrice irlandese Jessie Buckley e il chitarrista inglese (ma di origini irlandesi) Bernard Butler e, a peggiorare le cose, c’erano anche tutti i tentativi di attrici di un certo successo di passare alla musica, di solito poco riusciti e decisamente pretenziosi.
Jessie Buckley, almeno da queste parti è conosciuta per la sua interpretazione dell’infermiera psicopatica Oraetta Mayflower nella quarta stagione di Fargo (ma era già stata fantastica interpretando Lorna Bow in Taboo e Lyudmilla Ignatenko nella miniserie Chernobyl), o per la parte da protagonista nell’inquietante film I’m Thinking of Ending Things di Charlie Kaufman, ma non credo fossero in molti a sapere che ha recitato in vari musical nel West End e, per il suo ruolo in un revival di Cabaret nel 2021, ha vinto il Laurence Olivier Award come migliore attrice in un musical.
Non si tratta, quindi (e per fortuna), di un’attrice prestata alla musica, ma di un’artista dai mille talenti che, tra l’altro, ha scelto come proprio partner in crime, un altro talentuosissimo artista come Bernard Butler cui si farebbe un torto se lo si ricordasse solo come chitarrista dei primi, indimenticabili, Suede.
La loro collaborazione – che mi ha trovato del tutto impreparato (e un po’ scettico)- è nata in modo estemporaneo, intorno al 2020, su suggerimento del manager di Buckley, che spero sia stato adeguatamente retribuito per la geniale intuizione.
Sì, perché, nonostante preconcetti e scetticismi, ascoltando i primi brani che hanno anticipato l’uscita di For All Our Days That Tear The Heart, mi è sembrato subito che i due artisti si conoscessero da sempre e che la chimica e il feeling che li univa fosse quasi soprannaturale.
I singoli che hanno preceduto l’album, il drammatico The Eagle & The Dove, la straordinaria ballata con venature jazz Seven Red Rose Tattoos e la title track hanno immediatamente vinto ogni mio scetticismo e mostrato non solo come questa collaborazione dovesse essere presa molto seriamente, ma soprattutto le straordinarie doti vocali dell’artista irlandese (delle capacità di Butler, in effetti, non avevo mai dubitato, nonostante le sue numerosissime collaborazioni non mi avessero tutte convinto allo stesso modo).
L’album, composto da dodici brani, articolati e magnificamente arrangiati, si muove in perfetto equilibrio tra raffinato chamber folk, blues e ballad. La scrittura dei brani è decisamente classica, elegante e raffinata e la voce di Jessie Buckley fa la differenza: le sue interpretazioni, inevitabilmente teatrali, sono ricche di sfumature, delicate e potenti, capaci di toccare vette emotive straordinarie e di sussurrare dolcemente, infondendo a ogni singola canzone personalità e sentimento, illuminando gli angoli bui e, a tratti, oscurando del tutto il sole.
C’è una forza quasi mesmerica nel cantato di Buckley che si esalta nelle ballate (Shallow The Water, I Cried Your Tears, Shallow The Water) e raggiunge l’apoteosi in Seven Red Rose Tattoos (“I have seven red rose tattoos/ Seven years of a lost childhood/ In a world where love is lost on loners/ I’m on a quest to find love again“), nella quale, affiancata e sublimata dalla tromba di Byron Wallen, provoca un senso di smarrimento e perdita e lunghi brividi lungo la schiena dell’ascoltatore (attento).
Il ruolo di Bernard Butler, per quanto più nell’ombra, non è certamente secondario: impegnato al piano e alla chitarra acustica, imbastisce trame sonore sopraffine, che rivestono di classicità la straordinaria voce di Buckley e le permettono di esprimere tutto il suo talento, dandole lo spazio e il tempo necessari.
Gli arrangiamenti orchestrali, curati da Sally Herbert, seguono senza dubbio la scelta teatralità dell’interpretazione ma riescono a non essere mai sopra le righe, anzi conferiscono ai brani una patina da standard anche quando si incontrano i momenti più movimentati come Babylon Days, Footnotes On The Map (con un magnifico coro gospel) o We’ve Run The Distance, o emergono i riferimenti di jazz-folk britannico in canzoni come I’ve Got A Feeling e Sweet Child.
Brani come 20 Years A-Growing, con il violino e il contrabbasso in primissimo piano, o Footnotes On The Map, ispirato allo storico Robert McFarlane, sono momenti senza tempo, classici esempi di folk di chiara matrice irlandese -che, del resto, è alla base di tanto folk americano- che potrebbero essere stati scritti e interpretati in un momento qualsiasi degli ultimi due secoli.
Ma non è un caso: l’ispirazione dei brani è spesso esplicitamente letteraria (The Eagle and the Dove è un omaggio all’omonimo saggio di Vita Sackville-West, 20 Years A-Growing prende il titolo da un resoconto di vita a Great Blasket Island, al largo della contea di Kerry, scritto nel 1933 da Maurice O’Sullivan) e le liriche seguono questa ricercata classicità (“For all our days that tear the heart/ Leave us nowhere/ For all the years we left untold/ Hurt we couldn’t hold much longer/ We shed our skin through life/ We differ and multiply/ Become ourselves in time/ This place we callеd our home/ Has fallen down to stone/ Nowhеre else to hide” è il testo, pare scritto da Buckley durante le riprese di Fargo, del brano che da il titolo all’album).
Butler e Buckley hanno affermato che avrebbero voluto che gli ascoltatori potessero scoprire For All Our Days That Tear the Heart “come se fossero inciampati in una scatola di fotografie in fondo al loro armadio“, e, certamente, il loro intento è stato pienamente raggiunto: dodici fotografie, rigorosamente in banco e nero, su cui il tempo ha posato non polvere, ma una patina di fascino antico, di vissuto doloroso e misterioso ma sempre avvincente (“I would like to catch the dust/ Of a memory from a photograph/ I would like to close my eyes/ Find a map to where the sun meets the night“, canta Buckley in Catch The Dust).
Jessie Buckley è un’attrice che spesso ha interpretato personaggi sopra le righe, coinvolti in situazioni assurde e inquietanti, riuscendo sempre a trovare la chiave per renderli credibili e reali e, con For All Our Days That Tear the Heart riesce, esattamente allo stesso modo, anche grazie alla produzione attenta e misurata di Bernard Butler, a rendere vere e profondamente sentite le sue coinvolgenti interpretazioni canore.
Anche se rimango del parere che ognuno dovrebbe occuparsi del proprio mestiere, devo evidentemente ammettere che, come nel caso di Jessie Buckley, ci sono persone il cui talento e la cui sensibilità trascende ogni possibilità di essere imbrigliate in un ruolo e supera ogni steccato.
Pingback: Le firme di TRISTE©: Francesco Amoroso racconta il (suo) 2022 | Indie Sunset in Rome