Francesco Amoroso per TRISTE©
Per cercare di comprendere un punto di vista differente e una diversa chiave di lettura della società in cui viviamo, è, sempre più spesso, necessario concedersi qualche momento di silenzio per ascoltare e dare voce, spazio e visibilità a quelle persone che questo differente punto di vista lo incarnano in prima persona e che, fin troppo di frequente, sono ignorate o silenziate.
Trovo abbastanza irritante la pretesa che sui problemi delle donne, delle minoranze o dei discriminati in genere, abbiano voce in capitolo solo coloro che sono personalmente coinvolti e che sentono ogni giorno sulla propria pelle tali discriminazioni e trattamenti di sfavore, eppure è evidente che, senza un’esperienza diretta di certe situazioni, è davvero difficile poter dire la propria con una certa autorevolezza.
Mi rendo conto che parlare di ciò che prova una donna trentenne non cisgender, possa essere, per un maschio bianco adulto cis (devo ammetterlo, lo sono) presuntuoso e fuori luogo.
Eppure un album come Hysteria, il secondo lavoro dell’australiana Indigo Sparke, mi smuove qualcosa dentro, forse a riprova che certe emozioni semplicemente sono universali e prescindono dal genere, dagli orientamenti sessuali, dalla razza e anche dall’età.
A poco più di diciotto mesi dal debutto Echo, Sparke è tornata con un album ambizioso e di grande impatto emotivo che espande le sonorità acustiche del suo predecessore e ne amplifica l’impatto. La sua voce si rivela uno strumento malleabile, potente e capace di veicolare sentimenti intensi e contrastanti.
Echo, che aveva riscosso il plauso unanime della critica, senza tuttavia permettere alla sua autrice di raggiungere le vette di successo di artiste simili come Phoebe Bridgers o Angel Olsen, era il figlio naturale della produzione minimale di Andrew Sarlo e Adrianne Lenker, rispettivamente produttore e principale songwriter dei Big Thief, ed era costruito su sfumature e ballate dai colori tenui, profondamente intime e suggestive, che, grazie a una scrittura disadorna eppure efficacissima, riusciva a trasmettere l’essenza stessa della sua autrice. Era la produzione, volutamente minimale, a permettere alle emozioni e alle parole di Sparke di emergere.
Hysteria, invece, è caratterizzato da arrangiamenti più articolati, frutto dell’apporto, in veste di produttore, di Aaron Dessner (The National), da chitarre spesso grintose e da un uso misurato, ma abbastanza persistente, delle tastiere, in maniera non dissimile da quanto fatto da Olsen o Van Etten negli ultimi anni.
Eppure questi elementi, invece di soffocare il songwriting di Sparke, di sommergerlo di note e suoni, lo esaltano, rendendolo più vivido, più vibrante, più immediato e più immediatamente fruibile anche da un ascoltatore meno attento, meno preparato a immergersi nei sentimenti da esso veicolati.
I quattordici brani dell’album parlano di amore e perdita e dello sconvolgimento emotivo che accompagna queste sensazioni. Anche la scelta del titolo non è casuale: l’isteria è da sempre considerata una malattia tipicamente femminile, tanto che fu Ippocrate a coniare il termine isterico nella convinzione che si trattasse di una malattia che aveva a che fare con disturbi dell’utero.
I disturbi di Sparke consistono, appunto, in una sorta di ossessione amorosa, della quale Hysteria diventa diario intimo, valvola di sfogo e quasi manifesto.
Sentimenti ed emozioni che, come dicevo all’inizio, è più probabile che possano essere compresi e introiettati meglio da chi si trova nelle stesse condizioni della autrice – Sparke ha scritto la maggior parte di questo album durante i primi mesi del 2020, mentre stava lottando, in un mondo sconvolto, con una relazione agli sgoccioli, combattendo con dolori e ferite che riaffioravano dal passato e una depressione che spesso la bloccava del tutto – ma che riescono a essere universali, rifiutandosi di rimanere compressi e nascosti, che, anzi necessitano la condivisione e, pertanto, devono essere condivisi nella maniera più diretta e efficace possibile.
Molti dei brani che compongono l’album sono, così, pronti – pensati direi – per essere cantati davanti a un pubblico vasto: canzoni quali Pressure in My Chest, Set Your Fire On Me, God Is a Woman’s Name e Hold On nascono per infiammare subito gli animi, per essere cantati a squarciagola nei grandi happening, senza perdere – è qui sta uno dei grandi meriti di Sparke – un briciolo della sottigliezza e della sensibilità che la sua autrice aveva già manifestato nel più dimesso lavoro precedente.
Hysteria mostra l’abilità di Sparke di muoversi agilmente anche in acque più agitate e perigliose e i suoi ritornelli basati su poche frasi ripetute, sono dei mantra che rapiscono e stordiscono, ma senza mai alienarci: Pressure In My Chest, Hold On, Set Your Fire On Me sembrano sospendere momentaneamente i sensi per poi riportarci bruscamente alla realtà.
Ciò è possibile anche grazie alla voce eccezionale e eccezionalmente malleabile di Indigo Sparke che è cruda e spettrale, profonda ed emozionante, riesce a perdersi aerea tra gli echi, per poi ritrovarsi, concreta, tangibile, inesorabile.
Hysteria, in maniera diversa dall’esordio, è un album che preferisce l’astrazione al racconto dettagliato, che privilegia immagini impressionistiche (“Hysteria in the morning flush/ In the vapid rush/ Hysteria, hold me down/ These rivers in my eyes“), ricordi e descrizioni (“I carried you with me/ To the mountain of my dreams/ Sweet cold and icy/ A landscape of white trees“), sensazioni che catturano sentimenti tumultuosi e confusi, frustrazione, rabbia, rassegnazione, slanci di sublime fragilità amorosa (“She goes on touching/ And I’m holding her body/ We’re waiting for answers/ I’m holding the questions“, “Fill in the blanks with your body/ I wanna breathe/ Don’t wanna leave), senza che tutto questo necessiti di un’analisi minuziosa o una spiegazione chiara. Solo Burn, il brano che chiude l’album, è decisamente più narrativo: è un racconto dell’orrore sugli abusi subiti fino ai diciassette anni che, tuttavia, con la sua vividezza e il senso di disperazione che lo permea, non contraddice affatto il tono dell’album.
Anche se l’album è decisamente più immediato e in qualche modo più accessibile rispetto a Echo, i momenti più emozionanti sono ancora quelli più personali e ritirati: quando Sparke non si esprime a voce piena e il suo cantato si fa quasi un sussurro, scende di volume e aumenta d’intensità, chiedendoci di avvicinarci, perché stavolta non sarà lei a venire verso di noi.
Nella title track, in Pluto, in Infinity Honey, è l’anima più folk ad avere il sopravvento, Sad Is Love è puro country folk con un favoloso crescendo emotivo, Real è una ballata evocativa per voce e chitarra fingerpicking.
L’abilità di Indigo Sparke (e del suo produttore) è quella di rimanere in perfetto equilibrio tra l’intimo e l’universale, tra lo stadio e il piccolo club. Quella di riuscire, giustapponendo i passaggi più delicati e personali ai i momenti di catarsi e di sfogo a rendere entrambi ancora più eloquenti e incisivi.
E’ davvero probabile che io non possa immedesimarmi fino in fondo con ciò che Indigo Sparke prova e vuole trasmettere a chi l’ascolta e che questo breve scritto sarebbe stato più valido se scritto da qualcunə più vicinə a lei per attitudine, genere, preferenze sessuali ed età.
Eppure continuo a essere convinto (e le emozioni che provo ascoltando questo album me lo confermano) che la musica sia a volte a essere così universale e assoluta, da riuscire a trascendere ogni, più o meno fittizia, differenza.
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