
Francesco Amoroso per TRISTE©
Di fronte alle uscite dell’etichetta londinese 4AD ho sempre avuto una sorta di riflesso pavloviano. E, nonostante dagli anni 80 a oggi le cose siano cambiate in maniera sostanziale (Il fondatore Ivo Watts-Russell ha dapprima, negli anni ’90, aperto un ufficio a Los Angeles e, nel 1999, ha venduto le proprie quote al Beggars Group), continuo a nutrire nei suoi confronti una sorta di venerazione preconcetta.
Negli ultimi anni, poi, dopo un periodo in cui alla 4AD si erano accasati artisti dalle sonorità molto di moda, ma che non rientravano troppo nei miei gusti (con qualche straordinaria eccezione: vedi la ristampa di For Emma, Forever Ago, di Bon Iver, i Camera Obscura o The National), l’etichetta, che oramai si avvicina a grandi passi al mezzo secolo di vita, ha ricominciato a occuparsi di artisti e sonorità entusiasmanti, a partire da nomi amatissimi da queste parti quali Aldous Harding e Big Thief, ma anche come Dry Cleaning e Daughter, tanto che 4AD è oramai (di nuovo) un marchio riconosciuto ovunque -e in qualsiasi scena musicale- come sinonimo di qualità e coraggio artistico.
Così, quando la violoncellista e compositrice londinese Lucinda Chua è sbucata dal nulla e ha pubblicato i due EP Antidote (I e II), le mie antenne si sono drizzate immediatamente.
In quei due brevi lavori Chua aveva tentato di dare un’impronta pop, quasi R’n’B a tratti, alla musica ambient, costruendo le proprie composizioni aeree e sospese attraverso paesaggi sonori rilassanti e tranquilli.
Forse – è un azzardo sostenerlo, me ne rendo conto- per la prima volta la 4AD, con l’artista inglese, ma di origini malesi e cinesi, ha provato a riallacciare il filo di quel discorso nato proprio nei primi anni ottanta con gli album collettivi dei This Mortal Coil e con lavori come The Moon And The Melodies, dei Cocteau Twins in collaborazione con Harold Budd.
Certo, l’approccio alla musica d’ambiente di Lucinda Chua è distante nel tempo e nello spazio da quello dei progetti succitati, tiene conto dei quarant’anni passati da allora, delle nuove influenze, di un cambio tecnologico e di gusti, ma, in qualche modo l’attitudine è esattamente la stessa: la creazione di un mondo sonoro altro, nel quale calarsi, dimentichi dii ciò che ci circonda.
L’album d’esordio di Chua, YIAN, sviluppa e va oltre le idee abbozzate in quegli Ep, fatte di un muro di suoni morbidi, sparse note di pianoforte e tastiere delicatissime ad accompagnarne la voce flautata e profonda.
Già componente delle live band di Slint, Stars of the Lid e FKA Twigs e metà del duo chamber pop Felix, violoncellista di formazione classica, cantante e compositrice, Lucinda Chua espande la propria ricerca sonora con dieci brani delicati ma ben strutturati, eterei fino a essere a tratti quasi impalpabili, ma che rimangono ancorati a terra grazie ad arrangiamenti di archi organici e articolati.
Basata principalmente sulla voce, sul pianoforte e sugli archi, quella di Chua è una sorta di vaporosa ed espressiva sintesi tra rarefatto R&B e chamber pop, che si nutre e trova il proprio equilibrio sui pieni e sui vuoti e che, in alcuni passaggi, rimanda al trip hop, equilibrato, freddo e coinvolgente dei Portishead, asciugandolo completamente, tuttavia, della sua componente ritmica.
Chua ha composto YIAN (“rondine” in cinese), autoproducendo ben otto brani, per creare una sintesi tra le sue tre culture: quella inglese, quella malese e quella cinese che costituiscono il suo retaggio familiare e musicale. Introspettivo e rarefatto, YIAN richiede pazienza e concentrazione: caratterizzate da pause e spazi riempiti dalla voce, appena sopra un sussurro, da note mantenute e sonorità lente e languide, le sue composizioni più riuscite sono meditative ed emotivamente coinvolgenti (Golden, Echo, Something Other Than Years) ed è proprio in questi passaggi che emerge la sua attitudine ambientale, la sua vicinanza, almeno ideale, ai suoni che fecero grande la 4AD nel passato.
Nei trentasette minuti di YIAN le tastiere sono persistenti, così come i toni malinconici dell’organo Rhodes e sono sempre la voce e gli archi a sorreggere emotivamente ogni brano. È proprio questa voluta assenza di drammatiche variazioni a creare l’atmosfera dell’album e quella che per alcuni potrebbe essere una debolezza, è, invece, uno dei punti di forza principali dell’album.
Non mancano, tuttavia, brani che emergono scintillanti da questa magmatica materia sonora: Golden, in apertura, è uno dei vertici del lavoro, con il suo disarmante e ripetuto interrogativo (“Who do I turn to / When I’m not part of you?”), Autumn Leaves Don’t Fall, nella quale Chua canta in un registro palesemente più basso, regala più di qualche brivido, lo strumentale Meditations On A Place, non a caso coprodotto con Adam Wiltzie degli Stars of the Lid e A Winged Victory for the Sullen, vede gli archi suonati da Chua inserirsi in un ambient calda e seducente, mentre il singolo Echo, forse il brano più complesso dell’album, è imperniato su una efficacissima e espressiva sovrapposizione delle voci.
In Anything Other Than Years, il brano che chiude l’album, una seconda voce – quella della cantautrice e produttrice di Singapore yeule- produce una piccola variazione, una increspatura che rende ancor più vitale l’opera.
L’impressione è che YIAN -creando una sorta di ambiente sonoro delicatamente ottundente nel quale perdersi, una specie di corrente che scorre continua e gentile- pur essendo un esordio decisamente molto promettente, sia solo l’inizio di un lungo percorso musicale e che Chua abbia, nella sua proposta sonora, enormi possibilità di sviluppo: nei suoi suoni magnificamente prodotti e arrangiati e nella voce, suadente, cristallina e malleabile c’è la promessa di infiniti nuovi mondi sonori da esplorare.