Doom Flower – Limestone Ritual

Francesco Amoroso per TRISTE©

“L’unico difetto che ho sempre trovato nella scrittura è che puoi parlare alla pagina, ma lei non ti risponde mai. Scrivere è un atto ossessivo, in fondo. E l’ossessione, per sua natura, è una strada a senso unico.
Solo l’amore può rispondere.”
(Jason Mott – Che razza di libro!)

Come sempre accade a chi, come me, ha pensieri che talvolta oserei definire profondi, ma non ha il talento o la capacità per articolarli a parole, mi avvalgo di quello altrui per esternare una mia sensazione che, in questo periodo, si è fatta sempre più persistente.
Mi sono imbattuto nelle parole citate qui sopra proprio nei giorni in cui mi apprestavo a compilare il mio lungo e articolato elenco degli album che più mi hanno coinvolto ed emozionato nel corso dell’anno appena trascorso. Sono stati giorni caratterizzati da una scrittura che si potrebbe, effettivamente, definire ossessiva e probabilmente un po’ fine a se stessa. E la pagina, virtuale e interattiva quanto si vuole, non mi ha naturalmente mai dato alcuna risposta.

E’ stato solo l’amore di quei pochi (o tanti) che si sono sobbarcati l’impresa di leggere ciò che ho scritto a darmi la spinta per ricominciare daccapo con questo atto ossessivo e, per sua stessa natura, a senso unico.

Aggiungo che l’inizio dell’anno è un momento difficile in ogni campo ma, per chi scrive di musica lo è, probabilmente, anche di più: si devono ancora smaltire le scorie sonore dell’anno appena trascorso, non ci sono mai grandi uscite di rilievo e, a raccontare album che hanno la data dell’anno precedente (quando anche si trattasse di uscite degli ultimi giorni), ci si sente sempre un po’ fuori tempo massimo.
Poiché provo questa sensazione a ogni nuovo inizio, per il 2023 ho provato a organizzarmi e
sono già oltre una ventina gli album in uscita quest’anno che ho ascoltato (con maggiore o minore attenzione). Di alcuni di questi lavori non vedo l’ora di parlare, tuttavia solo uno, tra quelli che mi hanno colpito, è già uscito (per l’esattezza il sei di gennaio). Si tratta di un album oscuro e affascinante che ascolto già da qualche tempo: Limestone Ritual, seconda opera degli americani Doom Flower.

I Doom Flower possono essere considerati una sorta di supergruppo, anche se i suoi componenti suonano in gruppi che si muovono nel circuito più underground di Chicago.
Ad eccezione delle band con cui ha collaborato il bassista Bobby Burg, membro di lunga data di Joan of Arc e Make Believe, non conoscevo i progetti degli altri componenti: la cantante Jessica Pierce è nei Campdogzz, il tastierista Matt Lemke nei Wedding Dress e il batterista Areif Sless-Kitain ha suonato con The Eternals e Brokeback.
Dal 2019 fanno tutti parte del progetto Doom Flower che si disimpegna tra lo-fi, dreampop e (anti-)folk.

Limestone Ritual è il primo album concepito dalla band al completo, tuttavia il suo suono è caratterizzato non solo dalle scelte del quartetto chicagoano, ma anche da una circostanza fortuita (e fortunata) che ne ha sconvolto le registrazioni: una volta che le canzoni che dovevano andare a comporre l’album erano pronte, i Doom Flower hanno avuto solo due giorni liberi per registrarle: Price sarebbe dovuta, infatti, partire per questioni lavorative e il batterista Sless-Kitain non era disponibile in quel momento.
Senza perdersi d’animo, i membri superstiti hanno deciso di utilizzare alcuni campioni da un album breakbeats (incluso il crepitio del disco), regolandone la velocità in base all’umore e al ritmo delle canzoni, con l’aiuto del produttore Neil Strauch (Bonnie ‘Prince’ Billy, Margot and The Nuclear So And So).

Il risultato è sorprendente e spiazzante: le litanie di Price, che si muovono sinuose tra folk e lo-fi, acquistano un deciso sapore trip-hop e uno sviluppo non lineare. Sotto i persistenti ritmi spezzati, si intravedono composizioni calde e affascinanti, sognanti e vagamente ipnotiche.
Jessica Price, Bobby Burg e Matt Lemke riescono a estrarre, tra gli stordenti beat di Limestone Ritual, canzoni brevi ma compiute, pervase da una sottile malinconia e sciorinate con flemma e compostezza, imperniate sulla voce acuta, eppure roca e calda di Price e sul lavorio rilassato e incessante delle tastiere.

Ascoltando Limestone Ritual si ha quasi l’impressione di trovarsi di fronte a un esperimento che nasce più dall’amore per la musica e dalla volontà di suonarla che dalla necessità, intessuto di canzoni avvolgenti, stranianti, incantevoli e imprevedibili, nelle quali i ritornelli e i ganci sono spesso disarticolati e girano intorno ai ritmi in loop.

Sono spesso trovate estemporanee quelle che caratterizzano e rendono i singoli brani affascinanti e unici: in Enroll l’assenza della batteria è dovuta alla mancanza di un ritmo di valzer sul disco di breakbeat utilizzato, ma tale circostanza rende il brano sognante ed etereo (e lascia che il basso emerga alla grande). Allo stesso modo la voce di Price su Tracker, registrata al telefono in una stanza d’albergo di Malta, New York, contribuisce a creare quella sensazione di lontananza e di distacco che si percepisce evidente (mentre -informa la cartella stampa- la linea di basso mescola Boys Don’t Cry dei Cure, Stumped dei Minor Threat e I Want You Back dei Jackson 5. Da solo non ci sarei mai arrivato). Loess Hills, invece, era stata inizialmente concepito per essere una lunga suite (e The Space e Between Us erano originariamente la sua coda), mentre nella sua versione definitiva risulta essere uno dei brani più compiuti e coinvolgenti dell’album. Anche la più canonica Past Tense (quanto di più vicino al pop – sempre abbastanza trip– ci sia sull’album) risulta più efficace, così come Telehealth, grazie al crepitio del disco da cui sono campionati i ritmi.

Sembra si tratti di una semplice questione di fato: le canzoni di Limestone Ritual erano destinate a palesarsi e a essere ascoltate in questa forma, con la schiva voce di Jessica Price, le persistenti linee di synth di Matt Lemke e il basso profondo ed eclettico di Bobby Burg a creare un’alchimia sonora che potrebbe apparire quasi involontaria, ma, in ogni caso, è decisamente incisiva e coinvolgente.

Le dodici brevi canzoni di Limestone Ritual (in un solo caso si superano i quattro minuti) sono come una specie di macchina del tempo artigianale e fallace: un attimo ci troviamo catapultati nelle atmosfere sfocate e fumose della Bristol dei primi anni novanta, quello successivo persi tra le sonorità lo-fi ed elettroniche di certa Kranky.
Il miracolo è che non si perde mai la bussola, grazie a una capacità autoriale sorprendente, quanto poco appariscente.
Il 2023 non poteva partire (musicalmente, s’intende) sotto auspici migliori.

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