Francesco Amoroso per TRISTE©
“Demand me nothing. What you know, you know.
From this time forth I never will speak word.“
(W. Shakespeare: Othello: Act 5, scene 2)
E’ più che probabile che non capisca nulla di musica. Mi sta bene e non contesterò alcuna eventuale affermazione in tal senso.
Ma mi sento di dire che capisco le persone. O meglio: ho la sensazione di capire se una persona è sincera e genuina o finta e calcolatrice. Credo di avere una certa sensibilità in questo campo e sarei pronto a mettere la mano sul fuoco sulla sincerità di uno come Stuart Murdoch.
E’ per questo (oltre al mio grande amore per loro) che, alle prime reazioni scomposte seguite all’uscita (a sorpresa) del nuovo singolo dei Belle And Sebastian (I Don’t Know What You See In Me, scritto con Wuh Oh, nome d’arte del producer e compositore scozzese Peter Ferguson), l’ho davvero presa sul personale e la mia prima reazione è stata quella di non dire una parola sull’argomento. Facciano loro, sanno quello che sanno.
E, invece, poiché di parole ne avrei da dire anche troppe -molte delle quali preferisco tenerle per me, perché questa non è la sede adatta per polemiche o invettive inutili – rieccomi qui, paladino non richiesto e non necessario della band scozzese.
Ma, nonostante i buoni propositi iniziali, leggere che Stuart avrebbe scritto questa canzone per “timbrare il cartellino”, o che il brano “sembra un tentativo di fine carriera di indottrinare nuovi membri del culto“, o ancora che “fare l’adolescente a 54 anni è patetico” mi ha fatto davvero stare male (e non solo per qualche minuto). e per alleviare questo dolore, devo, in qualche modo, dire la mia.
Il fatto è che I Don’t Know What You See In Me non piace poi neanche a me. E’ sicuramente un brano synth pop da Eurovision Song Contest e che suona come un pezzo (neanche tra i più riusciti) degli Abba, tra il kitsch e il divertissement, ma ciò non autorizza nessuno a mettere in dubbio la sincerità e la dirittura morale e artistica di Stuart Murdoch e compagni che, in tanti anni di onoratissima carriera, si sono guadagnati un credito tale da potersi permettere anche scivoloni peggiori di questo.
Quando è uscito il singolo incriminato (e i relativi commenti piuttosto livorosi), stavo già ascoltando l’album da qualche giorno e, devo essere sincero, non avevo neanche fatto troppo caso a quel brano che mi pareva certamente il più debole del lotto, ma, tutto sommato, neanche particolarmente terribile. Attribuivo (e attribuisco) il suo concepimento alla voglia di divertirsi della band, al loro modo scanzonato di approcciarsi alla scrittura musicale, alla loro volontà di non prendersi mai troppo sul serio e di prendersi un po’ in giro, eterni adolescenti ormai attempati, ma io lo dico in senso positivo! (Del resto lo stesso Stuart ah detto del brano: “All music is escape, and perhaps we managed to escape a little further than usual with this unexpected tune”).
Anzi, poiché palesava l’attitudine, tenera e naif, dei Belle And Sebastian a non preoccuparsi troppo delle conseguenze delle loro scelte (Murdoch l’aveva già ampiamente dimostrata con God Help The Girl), avevo considerato il brano come un ulteriore motivo di amore: vedere l’umanità e la fallibilità di coloro che amate non ve li fa amare ancora di più?
Perdonare le debolezze, in fondo, nobilita il sentimento, mentre pretendere sempre la perfezione non è che una dimostrazione di grettezza ed egoismo.
A parziale discolpa dei cattivoni che hanno osato infangare i Belle And Sebastian va detto che tanto livore può essere scatenato solo da una band che si è molto amata e che la fine di un amore (e nessuno può sindacare i motivi della fine di un amore) porta tanta più acredine quanto più l’amore è stato intenso.
I Belle And Sebastian, per molti dei loro appassionati non hanno rappresentato una band tra le tante: hanno aperto a tanti un mondo, hanno rappresentato un modo di sentire, una poetica, hanno fatto sentire degli underdog (…) parte di una setta segreta, di un piccolo culto che faceva della gentilezza, della fragilità e dei sentimenti i propri punti di riferimento. In casi come questi basta davvero poco per sentirsi traditi.
E, poi, se proprio devo trovare una giustificazione a tutte quelle cattiverie, devo ricordare (anche a me stesso) che la maggior parte di chi aveva sentito quel singolo non aveva ancora ascoltato tutto l’album e non poteva sapere che Late Developers, registrato durante le stesse sessioni di A Bit Of Previous e costruito sui brani che non erano stati selezionati per quell’album, si sarebbe rivelato, di lì a qualche giorno, anche più piacevole e solido del pur ottimo predecessore.
E’ probabile infatti che, mentre con l’album dello scorso anno Stuart e C. abbiano preferito andare sul velluto e scegliere, tra le decine di canzoni scritte e registrate, quelle più compatibili tra di loro, per dare coerenza all’album e per non destabilizzare un’audience che ha (come è stato dimostrato) sempre bisogno di essere rassicurata, con Late Developers, invece, liberi da ogni pressione commerciale, si siano divertiti a confezionare un lavoro pieno di momenti inaspettati e brani che sembrano nati innanzitutto dall’a’estro del momento, dalla volontà di suonare insieme e di non dare mai nulla per scontato.
Così, meno coerente dal punto di vista delle sonorità del lavoro precedente, l’album di “scarti” finisce per essere un contenitore di insospettabili gemme.
Lo si capisce subito, con le grintose chitarre elettriche e il cantato accorato di Juliet Naked, brano composto – ma alla fine escluso – per la colonna sonora del film omonimo, tratto dal romanzo Tutta un’altra musica di Nick Hornby. E se nel testo Murdoch si allontana decisamente dall’immaginario tipico del suo songwriting, parlando di cocaina e pillole varie, si rifà subito dopo citando Carole King e suo marito Gerry Goffin, autori del grande successo Will You Love Me Tomorrow delle Shirelles.
Seguono, poi, l’uptempo di Give A Little Time, cantata da Sarah Martin, che richiama il più classico suono pop dei Belle And Sebastian ma che, ironicamente, afferma che è il caso di vivere il presente e lasciarsi il passato alle spalle (“Destroy your correspondence/ You read it back, it’s nonsense/ Old letters, feed them to the shredder/ You can let the past be silent“) e l’ancor più classica When We Were Young, il cui protagonista -tanto per smentire chi (con la solita estrema superficialità) li aveva bollati come eterni adolescenti- è un pendolare intristito che rimugina sul passato (non senza la pungente ironia che ha sempre caratterizzato i testi di Murdoch: “When we were very young/ We loved our selfish fun/ We cared what people thought/About our selfish words/ You could not tell us then/ How much we wouldn’t care/ ‘Bout all the mindless trivia/ Now we’ve got kids and dystopia/ I wish I could be content/ With the football scores/ I wish I could be content with my daily chores/ With my daily worship of the sublime/ I wish I could walk away/From my scars and sores“).
E che dire del magnifico baroque pop pieno di nostalgia di Will I Tell You A Secret? Il brano scritto al tempo delle session di Dear Catastrophe Waitress, impreziosito da un malinconico clavicembalo suonato da Chris Geddes e dagli struggenti cori di Sarah Martin, parla con tenerezza di una coppia che si separa senza astio (“It’s a funny old time to be a lover/ An easier time to be a friend/ With one arm behind my back/ I’ll heal you, darling/ A good love I will send“) e dura poco più di due minuti, ma è una breve magia che sarebbe stato un vero peccato fosse rimasta inedita.
E, nel corso della scaletta arrivano altre sorprese (che, sono certo, mitigheranno il giudizio di molti degli “amanti traditi”).
Su tutte When the Cynics Stare Back From the Wall, inedito scritto intorno al 1994, sontuoso chamber pop con la voce di Tracyanne Campbell dei Camera Obscura, che suona come un classico duetto dei B&S, è ispirata a Ciara MacLaverty, grande amica di Murdoch, cover star di If You’re Feeling Sinister e già protagonista di Nobody’s Empire (il brano più bello di Girls in Peacetime Want to Dance), e, guarda caso, parla proprio di sincerità…
Poi So In The Moment, l’immancabile brano di Stevie Jackson che suona, come al solito, gioioso e irresistibile e così romantico e ingenuo da non permetterci mai di capire quanto il suo autore sia naif e quanto, invece, sia consapevolmente furbo, con versi deliziosi come : “I want to jump in like/ Paul McCartney and Wings“, The Evening Star, canzone nella vena dei cappuccino kids di fine anni ottanta, che sposa una ballata di soul bianco, con l’indie pop più esultante e brilla grazie anche alla magnifica sezione di fiati, e, ancora, Do You Follow una sorta di brano funky che gira intorno al basso, ai synth e all’interazione tra le voci di Martin e Murdoch, (e che dimostra ancora una volta l’autoironia e la consapevolezza del suo autore: a Stuart che chiede: “Is it me or just the world that’s changing?” Sarah risponde: “My money’s on you!“).
L’album si chiude sulle note della sbarazzina e latineggiante title track, che, come è stato fatto notare da molte parti, potrebbe far parte della colonna sonora di un film Disney ambientato in un paese esotico, con i suoi fiati e i cori gospel e che risponde definitivamente a chi dalla band e dal suo leader pretenderebbe non deliziose canzonette, piene di sentimento, sincerità e acume, ma la risposta definitiva sulla vita, l’universo e tutto quanto: “I know that you’re drunk and sometimes/ Not in charge of your faculties/ Who said that I had the answer?/ Wasn’t me”.
Late Developers è un album che, forse in maniera anche inconsapevole, espone un programma politico e filosofico e che riesce, con una manciata di irresistibili brani pop (e un piccolo intoppo lungo il percorso…), a rispondere a chi sostiene che l’indie pop e i suoi esponenti possano avere solo una breve vita artistica (e mi sorge il sospetto che il titolo non si riferisca solo alle canzoni che sono maturate più lentamente di altre).
Per i Belle And Sebastian (e per alcuni dei loro appassionati fan) l’immutata indole adolescenziale non consiste affatto nel fingere di essere eternamente giovani, cinquantenni brizzolati (o, peggio, tinti) che cantano di turbe adolescenziali o delle angosce del primo amore, ma, in maniera più semplice e sincera, si tratta di un’attitudine con la quale affrontare e decifrare la vita, senza cinismo e astio ma con un’immutata volontà di vedere piccoli sprazzi di gioia e tenerezza ovunque questi si annidino.
“I’ll take you to places/ Where they sing their hearts out thundering joy/ I’m loving the people who lift up their voices/ Strong and loud!“