Matt Maltese – Driving Just To Drive

Francesco Amoroso per TRISTE©

Qui non si tratta solo di essere (ancora) giovani o di sentirsi vecchi. Qui si tratta del proprio rapporto con il tempo. Penso spesso a quando, da bambino, passavo interi pomeriggi a non far niente, perso tra fantasticherie e giochi estemporanei, tra momenti di noia e intensi attimi di divertimento, tra merende, chiacchiere, passeggiate, giornaletti, parco giochi e interminabili partite di pallone. Erano pomeriggi infiniti, eppure, se solo mi avessero chiesto come avevo passato il mio tempo, non avrei saputo rispondere altro che: “Non ho fatto nulla”.
Anche nella tarda (e tardissima) adolescenza, nonostante le opportunità e il tempo a mia completa disposizione si fossero, inevitabilmente, ridotti, capitava di avere giorni, pomeriggi, magari anche solo pochi momenti, durante i quali si poteva pensare a fare qualcosa tanto per farlo. Una delle cose più vicine alla spensieratezza dell’infanzia era certamente fare un giro in macchina e ascoltare la musica che usciva dall’autoradio e dalle sue casse spesso gracchianti. Erano momenti forse inutili, attimi che non significavano nulla, ma la sensazione di fare qualcosa per il solo gusto di farla, senza alcun obbligo o necessità (per quanto spesso autoimposta) conferiva loro un’aura di unicità, un senso di libertà che assaporavo alacremente, anche se probabilmente ancora inconsapevole della nostalgia con cui li avrei guardati a posteriori.

Driving Just To Drive, il quarto album dell’ormai ex-enfant prodige del sophisti-pop britannico Matt Maltese, nasce esattamente da queste riflessioni e porta, con le sue sonorità leggere e a tratti esultanti, piene di nostalgia e trasporto, a vivere, seppur fugacemente, quelle stesse sensazioni da lungo tempo perdute.
Dopo il successo, anche mainstream (naturalmente non nel nostro belpaese) di Good Morning It’s Now Tomorrow del 2021, Maltese era chiamato alla prova della definitiva maturità e sapeva bene che confermarsi non sarebbe stato facile.
Tra lo scegliere la riproposizione di schemi e sonorità già sentite e sfruttate e l’allontanarsi da esse per una ricerca sonora e contenutistica che non si sa bene dove avrebbe potuto portarlo, il musicista londinese, ha preferito una (vincente, occorre dirlo) via di mezzo, rielaborando il proprio easy listening elegante e levigato e recuperando un po’ del pathos che aveva caratterizzato le sue prime esaltanti uscite.

Arricchito nella scrittura anche dall’esperienza di autore per altri artisti (Jamie T, Joy Crookes e Celeste), sempre più sofisticato nella composizione e nell’interpretazione, Maltese sfoggia, così, undici nuovi brani che riflettono sul passato e sulla necessità di lasciarsi andare, conditi dai soliti testi ironici e personali e da melodie pop dal gusto delicatamente retrò.
Gli arrangiamenti agrodolci e cinematografici, il pianoforte sempre al centro della scena e le raffinate sonorità organiche rendono le composizioni dell’artista inglese profondamente coinvolgenti ed emotive, ma se fino ad oggi Matt Maltese si era presentato al pubblico come un esteta dalla lingua tagliente e dalla battuta sempre pronta, con Driving Just To Drive torna a insistere sul suo lato più emotivo e toccante, soprattutto nei brani che concludono magnificamente l’album (Hello Black Dog, But Leaving Is).

Con Driving Just To Drive Matt Maltese ci dice -o, meglio, ci fa percepire- che non è sbagliato vivere il momento e che non è necessario preoccuparsi sempre di navigare verso una meta.
Basta la bellissima Mother -già nota da tempo e posta all’inizio dell’album e che racconta con delicata ironia di una rottura sentimentale vista dal punto di vista della madre (“And yesterday I told my mother/You learn to love again/And oh, she was the daughter you never had/And I know sometimes you might miss her/But I know the years can heal/And if there is another/Maybe you’ll love them in the same way you loved her”)- per comprendere come Maltese abbia deciso di mettere da parte le vivaci atmosfere del suo precedente album, caratterizzato da arrangiamenti più moderni e sintetici, per rivelare in maniera più esplicita i propri sentimenti, affidandoli alle note di un piano suonato con mani di velluto. Florence non fa che ribadire questa scelta di semplicità, grazie a un ritornello cantato con voce delicatissima, e intrisa di dolce nostalgia è anche l’agrodolce Museum, sentimentale ritorno nella città natale, condito dalle chitarre e da un rigoglioso arrangiamento di fiati e sorretto dal piano e dalla voce suadente di Maltese.

Tuttavia non mancano i momenti più ironici, che hanno da sempre caratterizzato la scrittura di Maltese, e un brano come Widows, nonostante i suoi toni malinconici e delicati, sembra davvero un inno per la generazione Z, sempre in bilico tra cinismo e disperazione, tra edonismo e nichilismo: “Armageddon has resumed/ Rip your clothes off in my room/ Like there’s no fucking tomorrow“. Se solo qualcuno della generazione Z avesse l’opportunità di scoprirlo, sono certo che scriverebbe il testo di questo brano nel proprio diario (sempre che i diari esistano ancora…).

Anche nel pop sofisticatissimo di Suspend Your Disbelief, con la sua chitarra acustica a rimpiazzare il pianoforte (“Forget/ The shrinking coral reef and/ The sad fact that incels breed/ Lay back beside your perfect dreams/ Yeah life’s better when you/ Suspend your disbelief“), e in Mortician, imperniata su arrangiamenti pirotecnici di ottoni e chitarra dal sapore country (“You said that men like me can’t make their minds up/ I think you’re wrong, but I can’t decide“) è un’ironia dolceamara a prevalere, mentre Coward, brano nel quale Maltese duetta con Jessica Smyth meglio conosciuta come Biig Piig, è impalpabile, fatta di un tessuto pop leggerissimo, eppure lascia una sensazione di freschezza, un retrogusto piacevolmente persistente.

Sul finale, poi, come detto, i toni si fanno più accorati ed è ancora una volta il pianoforte a prendere il sopravvento: che si tratti della title track, della struggente Hello Black Dog, ballata senza vergogna alcuna “alla vecchia maniera” nella quale il riferimento alla depressione è esplicito (“Hello black dog/ It’s been a while/ I know that face/ I know those eyes/ I changed my address/ And blocked you online/ But you’ve found me in the dark/ And kept me from the light/ And hello black dog/ I’ve been expecting your kind/ Go check the fridge for something you like/ And stay for the night/ You can sleep by my side/ Then it’s goodbye black dog, til next time“), o della conclusiva But Leaving Is, che ancora una volta non ha alcuna remora a essere semplicemente una ballata pianistica per cuori infranti (“Love isn’t a choice/ Isn’t a way you decide/ It deafens and blinds and/ Pulls you into the void/ And it ain’t enough by design/ I learnt this with time, that/ Love isn’t a choice, but leaving is“), Matt Maltese tira fuori tutto il sentimento di cui è capace e si lascia andare, senza farsi più schermo dell’ironia, compagna fedele di una generazione la cui paura più grande, forse ancora più del cambiamento climatico, è quella di essere presi sul serio.

Driving Just To Drive potrebbe essere considerato un lavoro leggero, un’opera pop disimpegnata e transitoria per la carriera di Maltese. Mi permetto di dissentire. E’, invece, una prova di grandissima maturità, sia compositiva che lirica, una dimostrazione di come non sia necessario snaturarsi per crescere.
Matt Maltese, venticinquenne che musicalmente sembra già un veterano, è probabilmente uno dei più improbabili cantori della sua generazione, eppure è uno dei più efficaci. E sinceri.

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