
Francesco Amoroso per TRISTE©
Un pattern di batteria secco. Una voce sussurrata ed eterea, vagamente inquietante, un suono minimalista e sognante con linee di basso profonde che contendono lo spazio alla chitarra elettrica, dinamica e asciutta.
Capita di innamorarsi di una canzone (e della band che la suona) al primo ascolto, ma non troppo spesso. Con Old Bear, all’inizio del 2020, a me è successo.
Il 2020 sembra un paio di ere fa: un anno diverso da qualsiasi altro, vissuto tra paura e sconcerto, un anno nel quale tutti i nostri punti di riferimento, tutti i nostri schemi sono saltati, portandoci a rifugiarci sempre di più nell’intimo, negli affetti, nei nostri angoli sicuri.
Per me la musica è sempre stata il luogo (mentale) di rifugio per eccellenza e in quel “lontanissimo” 2020 non ho fatto altro che immergermici in maniera ancora più profonda, sempre alla ricerca di suoni e parole che potessero portarmi un po’ di conforto, un po’ di pace interiore.
E’ stato proprio intorno all’inizio di quello “strano” anno che ho scoperto i Cloth.
E’ stato l’amore per Old Bear, ascoltata per caso su Youtube, a portarmi a dischiudermi quel tesoro di minimale bellezza che è l’omonimo album d’esordio della band scozzese, uscito sul finire dell’anno precedente.
E, così, i primi mesi del lock down e della pandemia li ho vissuti in compagnia di un album uscito qualche mese prima (e di cui, quindi, per una mia personale e assurda fissazione, non avrei potuto raccontare su TRISTE©) di cui non sapevo praticamente nulla ma che mi ha conquistato con la forza della sua visione: non c’erano, infatti, in quel lavoro canzoni immediate o melodie di facile presa , anzi ci volevano tre canzoni e quasi sette minuti perché arrivasse un passaggio che potesse essere definito un ritornello (Demo Love), ma la scrittura originale e l’abilità negli arrangiamenti, la visione sonora della band, appunto, li rendeva alle mie orecchie davvero unici.
In un momento di volontaria anestetizzazione, di sospensione dei sensi, ascoltare un album che sembrava svanire dopo ogni ascolto, sfuggirmi dalle mani e che, tuttavia, mi costringeva, ogni volta, a riprenderlo e riascoltarlo per tentare di afferrarlo, lasciandomi sempre a combattere tra il desiderio di avere di più e l’appagamento di aver ricevuto tutto quanto fosse in quel momento necessario, era probabilmente più di quanto avessi potuto sperare. I Cloth sono stati, così, una sorta di compagni di viaggio e un conforto in un momento in cui di compagnia e conforto avevamo bisogno un po’ tutti.
Da allora sono stato in fervente attesa di novità dalla band, curioso di scoprire quale sarebbe stato il loro sviluppo artistico ma, soprattutto, desideroso di essere di nuovo in loro compagnia. Fino allo scorso anno, quando è arrivato il loro straordinario Ep Low Sun con il quale il duo di Glasgow, formato dai fratelli gemelli Rachael e Paul Swinton ha esordito per la Rock Action dei Mogwai, regalandomi, oltre a quattro brani praticamente perfetti, un interessante indizio sui possibili sviluppi del loro suono.
Ma gli innamorati, si sa, sono insaziabili e quattro brani e una manciata di minuti non mi potevano bastare.
Poi, finalmente, qualche giorno fa, è arrivato Secret Measure.
Se il magnifico e sorprendente album d’esordio del 2019 era stato il frutto di anni di lavoro casalingo e intimo, Secret Measure è il prodotto della apertura dei gemelli Swinton verso il mondo. Le dieci tracce che lo compongono hanno avuto immediatamente su di me lo stesso impatto delle misteriose e magnifiche canzoni dell’esordio e, pur non tradendo in alcun modo il minimalismo e la rarefazione che caratterizzava quelle gemme, sono riuscite, con piccoli tocchi, a volte impercettibili a volte evidenti, ad affinare il linguaggio sonoro del duo fino a renderlo ancora più unico e affascinante.
E’ stata forse l’influenza esterna del produttore Ali Chant, uno le cui collaborazioni non si contano più, o l’allontamamento da Glasgow per recarsi a Bristol a registrare l’album, o, ancora, l’utilizzo di strumenti nuovi che ne allargano la palette sonora, sta di fatto che i Cloth hanno forgiato per Secret Measure un suono che, benché rimanga indissolubilmente legato alle loro radici, risulta più ispirato e variegato, maggiormente evoluto ed espressivo.
Il contributo di collaboratori esterni, come la musicista e cantautrice Jemima Coulter che aggiunge la tromba nella magnifica Lido, la presenza del batterista jazz Matt Brown che ha assecondato la voglia di Rachael Swinton di avere passaggi ritmici più intricati e originali (“È stato come poter dialogare direttamente con la batteria“), l’utilizzo di strumenti atipici quali il Santoor, uno strumento etnico che dona a Ambulance una grande atmosfera, e di synth analogici, hanno reso le sonorità di Secret Measure più calde e avvolgenti e la voce intima e ariosa di Rachael, accompagnata dalle immancabili scintillanti linee di chitarra, ne risulta sempre esaltata.
I Cloth sono riusciti, con minimi cambi di panorama, a rendere le loro canzoni più immediate e drammatiche: Pigeon si muove tra tristezza e speranza mentre Never Know è sorretta da ritmiche incalzanti e dalla voce distaccata di Rachael, Ambulance si spinge un po’ oltre, Lido suona glaciale all’inizio, come un brano del repertorio precedente, cui la tromba conferisce calore e trasporto, mentre Money Plant è stordente e ipnotica.
Laddove i testi di Cloth erano stati concepiti in collaborazione tra Paul e Rachael, per Secret Measure è stato il solo Paul a occuparsene, conferendo al lavoro una coesione e un’intimità maggiore: esiste nelle parole del nuovo album un filo conduttore che ha a che fare con il momento difficile che il musicista scozzese stava passando e con il suo tentativo di aggrapparsi alla speranza, in qualunque luogo o situazione riuscisse a trovarla, anche in quelle che sembravano più desolate o difficili da sopportare.
Ed è proprio il desiderio di rassicurazioni personali, la volontà di vedere uno spiraglio di speranza anche nel momento più disperato, a legare la narrazione dell’album.
E, anche se non ci troviamo più nel pieno di un’emergenza sanitaria mondiale, il mondo che ci circonda rimane ancora abbastanza cupo perché si debba essere grati a chiunque ci doni un barlume di speranza.
Secret Measure è certamente ancora un album dei Cloth, le cui sonorità, abbastanza difficili da incasellare, si muovono tra il minimalismo freddo (eppure così intimo e personale) dei grandissimi Young Marble Giants, le atmosfere sognanti dei Cocteau Twins e le sincopate rarefazioni del primo lavoro degli XX, ma, allo stesso tempo, è qualcosa di diverso: il suo più ampio respiro musicale, l’espolrazione di territori nuovi, il superamento di confini sonori autoimposti, ne fanno un atto di coraggio e una testa di ponte verso sviluppi futuri.
Quanto l’album d’esordio era fatto di angoli oscuri, di vuoti e di pause, Secret Measure, “spazioso, inquietante e groovy” (parole loro) è ricco ed espressivo, avvolgente e caldo, e lo si può ascoltare lasciandosi andare, abbandonandosi con fiducia nel suo confortevole abbraccio.