Kara Jackson – Why Does The Earth Give Us People To Love?

Francesco Amoroso per TRISTE©

I’ll make a promise to you then
If we can ever sing again
You sing those high notes high, my friend
I’ll sing the low notes in the end
I’ll sing the low notes in the end

Non saprei se chiamarlo un vezzo, ma mi piace, quando comincio a raccontare un album, aprire con una piccola citazione. Spesso arriva da qualcosa che sto leggendo in quel momento o da un romanzo o una poesia che mi sono venuti in mente ascoltando l’album in questione. Qualche volta mi capita di forzare un po’ le cose, in altri casi il collegamento è palese. Stavolta, però, non sono dovuto andare troppo lontano. Perché l’autrice di Why Does The Earth Give Us People To Love? è, forse ancora prima che una musicista, una poetessa. E anche una poetessa il cui talento è ampiamente riconosciuto.

Kara Jackson arriva dall’Illinois, da Oak Park, cittadina liberal e multietnica, nella quale il grande architetto Frank Lloyd Wright lavorò a lungo e nella cui High School si diplomò Ernest Hemingway.
Kara Jackson è stata  National Youth Poet Laureate nel 2019 e, quello stesso anno ha fatto uscire sia una raccolta di poesie, Bloodstone Cowboy, sia un EP di canzoni A Song for Every Chamber of the Heart. Poco dopo, però, anche a causa della pandemia, si è chiusa nella sua cameretta e ha scritto un album, Why Does The Earth Give Us People To Love?, appunto, che nasce proprio attorno alla domanda contenuta nel titolo, susseguente alla prematura scomparsa di Maya, un’amica dei tempi della scuola: “Why does the earth give us people to love?/ Then take them away, out of reach?”.
Anche se il brano si conclude in maniera piuttosto fatalista (“We’re only waiting our turn/ Call that living?”) nella poetica e nella musica di Jackson c’è molto di più.

Per non lasciare nulla al caso, i brani abbozzati nella cameretta sono stati consegnati nelle mani di altri artisti, per lo più locali, come Sen Morimoto, il produttore e musicista Nnamdï e la cantautrice Kaina, che hanno aiutato Kara a trovare i giusti abiti, non troppo sfarzosi ma mai dimessi, per adornare la sua voce profonda ed empatica e per esaltarne le caratteristiche.
È proprio la voce di Kara Jackson la prima cosa che colpisce in questo lavoro lento e languido, opera che richiede attenzione e la giusta predisposizione d’animo per essere apprezzata a pieno. Una voce di quelle che, in ambito latamente folk non è facile trovare.
In un mondo come quello del folk (pop), anche al femminile, che è pressoché appannaggio esclusivo di giovani artiste bianche dalla voce chiara e spesso omologata e indistinguibile da quella di mille altre, il timbro scuro, il cantato un po’ di gola e le tonalità profonde della voce di Kara Jackson ricordano, inevitabilmente, le poche artiste nere che l’hanno preceduta in questo contesto, da Tracy Chapman a Joan Armatrading (ricordate la clamorosa “Drop The Pilot”?), fino alle più recenti (e decisamente meno folk e più mainstream) Valerie June e Arlo Parks.
Tuttavia, mi azzardo ad affermarlo già sapendo che tanti storceranno il naso, il paragone più appropriato mi sembra, con il suo modo di cantare non impostato e pieno di sfumature, incurante di ogni canone e assolutamente sincero, con una giovane Nina Simone catapultata nel nuovo millennio.

Superato lo stupore e la meraviglia per questa voce cui, da bravo appassionato di sonorità prettamente “bianche” (e da maschio europeo bianco, cis e pure di mezza età -ma fieramente gen X e non boomer) sono poco avvezzo, però, quel che rimane sono le canzoni.
E le canzoni di Jackson sono straordinarie.
Dopo la breve e intensa Recognized, No Fun/Party, con un arrangiamento d’archi a sostenere note sparse di pianoforte e chitarra, dimostra subito la capacità dell’artista dell’Illinois di scrivere brani intensissimi e potenti (“I wanna be as dangerous as a dancing dragon/ Or a steam engine, a loaded gun/ Being loved for my hazard and a will to destruct/
And isn’t that just love, a will to destruct
”) e la successiva Dickhead Blues non può che confermare l’impressione, con un organo Wurlitzer che sottolinea un testo di rara forza espressiva: “I’m not as worthless as I once thought/ I am pretty top-notch…/ I’m useful”).

Tutta la narrazione dell’album è incentrata sull’affermazione personale, sul riconoscimento del proprio valore (“I know I’m young but I’m not naive” afferma in Courtains, “I’m not a liquidated asset/ I’m a sharper than a jewel/ What kind of miner does that make you?/ When I’m the gold and you’re just a fool” ironizza aspra in Pawnshop), sull’emancipazione dagli stereotipi e dal giogo patriarcale, spesso imposto anche attraverso una visone dell’amore romantico travisata e strumentale (“Every man thinks I’m his fucking mother/ Good for milk and good for supper/ Never asks if I can be his lover/ Special someone when he suffers“, canta in Therapy, “I’m not so motherly/ I won’t kiss your cheek/ I’m sure you’re someone’s baby/ But it ain’t me” ribadisce in Free).
La sola Rat, aspra ballata che parte semplicissima con la chitarra acustica e cresce fino a gonfiarsi, grazie agli inserti d’achi e alla voce, a tratti doppiata, che tocca tonalità diverse e intensissime, racconta una storia in terza persona e, probabilmente, è il passaggio più puramente narrativo e classico dell’album, mentre la struggente Lily, nella sua immota ieraticità, è toccante fino alle lacrime (“Lily/ There’s a million songs/ I could write you up/ To extract our love/ Build a statue up/ It outlives us“).

Le canzoni di Kara Jackson sono straordinarie, vale la pena di ribadirlo, e il motivo di tale eccezionalità credo risieda nel connubio tra la potenza dei suoi testi poetici e le idee musicali decisamente originali utilizzate che, nonostante si rifacciano ai canoni del folk, risultano sempre un po’ fuori dagli schemi.
E, del resto, non è già una chiara volontà di rompere schemi e stereotipi, la scelta di un’artista nera del nuovo millennio di esprimersi senza utilizzare gli stilemi e i suoni dell’hip-hop, del soul urbano o del r&b?

Why Does The Earth Give Us People To Love? è un tesoro prezioso, un’opera straordinariamente intima e però universale, che dovremmo coccolare, tenerci stretta e amare a lungo e Kara Jackson, che con i suoi versi rende ancora più labile il confine tra poesia e canzone, è una voce necessaria e imprescindibile, che ha la capacità di parlare a chiunque, senza per questo essere banalmente ecumenica.

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