Field Music – Limits of Language

Nei coriandoli di tempo disponibili, ahimè sempre più rari e microscopici, continuo a seguire con sincero interesse le vicende di alcuni reduci dei cosiddetti anni Zero a cui si legano tanti piacevolissimi ricordi della mia prima giovinezza. Se i Libertines, alle soglie dei una mezza età splendidamente portata, si sono concessi il lusso di firmare uno dei loro dischi più coesi e ispirati di sempre (tenendo nel conto anche le produzioni collaterali dei due luogotenenti Barat e Doherty), qualcosa di non troppo dissimile è riuscito ai sin troppo taciuti, ormai quasi dati per scontati (faccio mestamente mea culpa…) Elbow di AUDIO VERTIGO. Restando a nord e spostandosi dalla contea della grande Manchester a quella del Northumberland, anche i sempre cari Maxïmo Park hanno saputo scaldare quest’inizio di inverno con un disco luminoso, Stream of Life, che fatica non poco ad uscire dal mio lettore, tante sono le emozioni e i ricordi che canzoni come Favourite Songs o The End Can Be As Good As The Start suscitano ad ogni nuovo ascolto.

Su molti altri progetti potrei facilmente dilungarmi. In questo 2024 la memoria dei Maccabees è stata inizialmente riaccesa dal discreto esordio lungo degli 86TVS e dal concomitante e altrettanto dilettevole, ormai terzo, lavoro solista del transfuga Orlando Weeks. Memoria che si è trasformata ben presto in incontenibile gioia alla notizia di un concerto della band finalmente riunita, già programmato per l’agosto del prossimo anno al festival All Points East di Londra. Una sorte analoga a quella dei Maccabees si vagheggia a questo punto anche per i colleghi Wild Beasts, che per vie indirette hanno comunque lasciato tracce significative sull’ultima annata musicale, grazie al nuovo elegante capitolo del progetto One True Pairing di Tom Fleming e alla singolarissima opera lirico-elettronica Ness di Hayden Thorpe, sviluppata a partire da un omonimo libro di Robert Macfarlane e Stanley Donwood e ispirata a Orford Ness, penisola del Suffolk un tempo laboratorio di esperimenti nucleari del Ministero della Difesa britannico e oggi riserva naturale.

Un posto particolare in questa idiosincratica disanima spetta tuttavia al nono disco dei Field Music, dal titolo, argutamente wittgensteiniano, Limits of Language. In primo luogo perché si tratta di un lavoro di gusto e intelligenza al solito sopraffini (rimpiango a questo proposito di non aver speso illo tempore più tempo e parole per il suo magnifico precedessore Flat White Moon del 2021…). In secondo luogo perché i fratelli David e Peter Brewis, sin dal remoto 2004 unici titolari fissi del progetto, hanno in tutti questi anni proseguito con ammirevole (quanto folle) imperturbabilità a rifinire, arricchire e perfezionare uno stile che appare oggi riconoscibilissimo, unico, forse addirittura inimitabile, tanta è l’ostinazione con cui è stato affinato.

Il duo non ha mai mollato la presa, anche quando la fama e i riscontri, al prosciugarsi della sbornia anni Zero, iniziavano a farsi fiochi o decisamente altalenanti. Già questo sarebbe un merito non da poco, a cui hanno senz’altro giovato i lavori su commissione e i tanti progetti paralleli coltivati in veste solistica, dalla School of Language di Peter Brewis, che si è intestata tre dischi, ai The Week That Was di David Brewis. Si potrebbe del resto affermare, con pari ragione, che la band di Sunderland non fa altro che riscrivere lo stesso disco da anni ma che quel disco è ogni volta completamente diverso, esito di un’arte (ri)combinatoria in grado di generare nuovi oggetti potenzialmente infiniti.

In Limits of Language risuonano i riferimenti di sempre: gli XTC, i Genesis, gli E.L.O., gli Steely Dan, la ZZT Records, i Roxy Music, i minimalisti, una certa lunare malinconia stemperata talvolta in sapiente manierismo jazz-funk, talaltra in sofisticata miniatura prog. Composizioni come I Might Have Been Wrong o On the Other Side si rivelando fra le più affascinanti e ipnotiche del duo, piccole odissee nell’abisso senza fondo della forma, pensierose divagazioni nei meccanismi del linguaggio che hanno tuttavia ben poco di accademico e mantengono semmai la malizia e il guizzo leggero della canzonetta pop perfettamente compiuta (Sounds About Right, Turn the Hours Away, la splendida Six Weeks, Nine Wells).

Assimilati inizialmente (e a torto) al primo revival post-punk anni Zero, i Field Music si rivelano oggi uno dei progetti più preziosi e originali della musica pop contemporanea. Ritrovarli ancora così ispirati, fecondi e capaci di sorprendere anche chi da anni ne frequenta e studia il genio, è una fortuna che si fatica davvero a descrivere. Limits of Language, chioserebbero gli Inglesi…

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