Rosie Miles – Still Life

Francesco Amoroso per TRISTE©

Though her legs are aching
She patiently sits at the station
To watch hope roll away like an underground train

Mi è già capitato di raccontare altrove come, nei primi giorni del lockdown (sono passati solo tre anni, eppure è un periodo che sembra far parte della vita di qualcun altro o di un tempo così remoto a cui, ora, si guarda con distacco e, magari, solo un pizzico di nostalgia), avessi trovato rifugio nell’ascolto e nella ricerca compulsiva di novità musicali e di artisti che non ricevevano, nelle riviste e webzine specializzate, particolari attenzioni.
Quella ricerca musicale, dettata dalla necessità di avere qualche stimolo in più in un momento in cui tutto sembrava fermo e monotono, mi portò a fare notevoli scoperte e, da allora, pur con le inevitabili restrizioni dovute al tempo limitato dagli impegni che, con la fine di quel tempo sospeso, sono ritornati pressanti, non ho smesso di guardarmi intorno per scoprire musicisti stimolanti fuori dai soliti -per quanto indipendenti- circuiti.
E’ così che, qualche tempo fa, mi sono imbattuto in una giovane musicista, operante a Leeds, i cui unici brani disponibili, mi hanno subito colpito molto favorevolmente.

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Grian Chatten – Chaos For The Fly

Francesco Giordani per TRISTE©

“Se non ci perdessimo, saremmo perduti”
Jean Echenoz, Un anno,
Einaudi, 1998

Ammetto di aver reagito con un certo fastidio misto a scettico pessimismo alla notizia di un imminente esordio solista di mister Chatten. Me ne sfuggiva un po’ il senso, essendo ormai diventati i Fontaines D.C., grazie anche al cospicuo successo critico e commerciale di Skinty Fia, una delle rock band dal segno più forte fra quelle attive oggi nel mercato europeo, tanto da tirarsi dietro una scia schiumosa di emuli ed aspiranti competitori.

Mi appariva, questa improvvisa, non preannunciata, volontà del cantante dublinese di vedere il proprio nome scritto in calce ad un disco, il segno di una possibile crisi interna alla band, di una stanchezza precoce, di una temibile nausea (del resto apparsa più e più volte nel canzoniere degli Irlandesi, tanto da diventarne quasi un marchio di fabbrica poetico) o forse, più semplicemente, un anacronistico atto di vanità da parte di una rockstar effimera, già inghiottita dal capriccio egotista.

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Robbi Curtice – Nothing To Write Home About

Francesco Amoroso per TRISTE©

“Not only has there never before been a society so obsessed with the cultural artifacts of its immediate past, but there has never before been a society that is able to access the immediate past so easily and so copiously.”
(Simon Reynolds – Retromania)

Sostiene Simon Reynolds, in quello che -senza dubbio- è il saggio più importante per comprendere il mondo della musica “leggera” dell’ultimo quarto di secolo- che l’era pop in cui viviamo adora tutto ciò che è retrò e commemorativo. La musica pop(ular) in passato creava un senso di speranza, continua Reynolds, era proiettata verso il futuro e produceva movimenti innovativi come la psichedelia negli anni 60, il post punk negli anni 70, l’hip-hop negli anni 80 e la rave-culture negli anni 90. La musica degli anni Duemila, invece, è stata prima minacciata, poi spodestata, infine annientata dal passato. E, se all’inizio il problema era soprattutto industriale – revival, ristampe, cofanetti, edizioni rimasterizzate, reunion di band, pubblicazione di biografie, memoir e documentari- da molto tempo ormai è una questione d’ispirazione: invece di produrre nuova musica per esprimere se stessi, i giovani artisti e le band esordienti sono saldamente ancorati alla musica del passato. Ne siamo rimasti invischiati tutti.

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Bar Italia – Tracey Denim

Matteo Maioli per TRISTE©

Fino ad oggi Bar Italia era per me semplicemente una grande canzone dei Pulp – l’ultima in scaletta di Different Class – oltre ad un caffè londinese a Soho che non ho mai frequentato. Poi mi è giunto alle orecchie il disco di un gruppo con lo stesso nome, formato dalla vocalist di origine romana Nina Cristante, con i chitarristi Jezmi Tarik Fehmi e Sam Fenton.
Scopro che Tracey Denim è il loro terzo album e vado a rimediare alla mancanza, annotando del precedente Bedhead (tredici canzoni per ventidue minuti) tanto il pop sognante di Itv2 e Tenet quanto un versante più lo-fi e dark rappresentato da Bachelorette e Killer Instinct, con l’ultima che non per nulla cita le liriche di Boys Don’t Cry dei Cure.

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Kara Jackson – Why Does The Earth Give Us People To Love?

Francesco Amoroso per TRISTE©

I’ll make a promise to you then
If we can ever sing again
You sing those high notes high, my friend
I’ll sing the low notes in the end
I’ll sing the low notes in the end

Non saprei se chiamarlo un vezzo, ma mi piace, quando comincio a raccontare un album, aprire con una piccola citazione. Spesso arriva da qualcosa che sto leggendo in quel momento o da un romanzo o una poesia che mi sono venuti in mente ascoltando l’album in questione. Qualche volta mi capita di forzare un po’ le cose, in altri casi il collegamento è palese. Stavolta, però, non sono dovuto andare troppo lontano. Perché l’autrice di Why Does The Earth Give Us People To Love? è, forse ancora prima che una musicista, una poetessa. E anche una poetessa il cui talento è ampiamente riconosciuto.

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