Francesco Amoroso per TRISTE©
“Nothing is purer than intense beauty”.
Era difficile, nei primi anni novanta, per un post adolescente maschio italiano, per di più residente in provincia, manifestare i propri sentimenti e la propria nostalgia verso l’infanzia, senza rischiare di essere etichettato come una femminuccia.
Così, mentre tutti i miei coetanei scapocciavano ascoltando i Nirvana e il grunge (e si ammazzavano di canne), personalmente mi trovavo in qualche imbarazzo a urlare ai quattro venti la mia sconfinata passione per la Sarah Records, piccola etichetta di Bristol, e per le sue straordinarie band, The Field Mice, Brighter, Blueboy, The Orchids.
Non che non amassi il grunge e i Nirvana (del resto a suo modo anche Kurt corrispondeva perfettamente alla descrizione che ho fatto in apertura), ma semplicemente prediligevo alla ribellione esplicita e un po’ caciarona delle camicie a scacchi, una piccola rivoluzione dell’anima, da consumare da solo nella mia cameretta (in Italia, in provincia e nei primi anni novanta ci era permesso di essere adolescenti almeno fino ai trent’anni).
E, così, invece di parlare di Nevermind o Superunknown, mi trovo, per questo primo breve viaggio nei vicoli della memoria, a raccontare di un piccolo disco di culto, uscito nel 1992 che, all’epoca come oggi, mi ha aiutato a liberare il mio animo nostalgico e a riconnettermi con il fanciullino che sempre alberga in me (molto più di quanto abbia mai fatto una qualsiasi poesia di Pascoli).
Effettivamente se l’infanzia fosse un album, come pensate che suonerebbe? Verosimilmente come If Wishes Were Horses. Sembrerebbe impossibile condensare i ricordi del periodo più fecondo e spensierato della propria esistenza in soli 26 minuti, eppure Keith Girdler e compagni ci sono riusciti. Mirabilmente.
Dal titolo (che si riferisce al proverbio che sostiene che se i desideri fossero cavalli, allora i poveri sarebbero sempre al galoppo) alla copertina, l’esordio sulla lunga distanza dei Blueboy per la Sarah Records (cui sono seguiti altri due pregevoli lavori: The Bank Of England e Unisex) è un concentrato di nostalgia di un passato rimembrato con gli occhi lucidi e una stretta forte e dolce al cuore.
Probabilmente uno degli album più genuinamente aderenti al “genere”, e uno dei più sottovalutati, If Wishes Were Horses non solo celebra l’estetica dell’indie pop, ma ne sposa in pieno il suono, pur ampliandone lo spettro con richiami evidenti alla bossa nova e l’uso del violoncello a sottolineare lo struggimento di un’età piena di emozioni e stupori.
Le voci delicatissime e quasi diafane di Keith e Gemma e la chitarra gentile di Paul regalano all’ascoltatore una lucentissima piccola perla che, sottilmente, ha fatto breccia nel mio cuore e in quello di molti (anche se non nella provincia italiana e non nei primi anni novanta).
Ormai, con il famoso senno di poi, di cui sono piene le fosse, l’esordio dei Blueboy è diventato un pilastro dell’indie pop più sentimentale, il buon Keith Girdler, nel frattempo se n’è andato, portato via da quello che solitamente si definisce un brutto male e io ho ancor più bisogno di riconnettermi alla mia infanzia, per meglio comprendere paure, emozioni e stupori del mio pargolo.
Per fortuna c’è If Wishes Were Horses che, tanto tempo fa, mi ha aiutato a comprendere che avere il coraggio di essere sentimentali e nostalgici, ci rende più forti e più umani.
Leaves are falling
Mountains crumbing
She’s in love with a memory.
Alla prossima.
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