Francesco Amoroso per TRISTE©
Ogni anno, all’approssimarsi del Natale, mi sento quasi compulsivamente spinto a riascoltare l’album che più rappresenta per me quel periodo dell’anno. Non si tratta dei classici natalizi cantati da Frank Sinatra o da Mariah Carey, ma dell’esordio di quella che all’epoca era solo una piccola e misconosciuta band proveniente da Dublino: i My Bloody Valentine.
Il motivo è presto detto: nel tentativo (stranamente non vano) di conquistare una compagna di scuola, a Natale del 1988, decisi di confezionare una bella cassettina con tanti brani dedicati a lei. A parte cose orribili come LL Cool J o Bon Jovi (per andare incontro ai suoi gusti) punto forte della raccolta era Soft As Snow (But Warm Inside), brano d’apertura dell’album Isn’t Anything da poco pubblicato dagli irlandesi su etichetta Creation Records (e da me acquistato solo per tale motivo).
Con quel brano avrei voluto comunicarle che sapevo che, sotto l’apparente freddezza (la giovane era decisamente scorbutica), c’era un mondo di calore e dolcezza pronto a schiudersi per me. Peccato che il brano non dicesse proprio quello, ma il titolo era quanto di più vicino avessi potuto trovare al concetto che volevo esprimere.
Ecco spiegato il perché, da allora, Isn’t Anything è il mio disco di Natale (e mi scuso, con i lettori e con i gestori del blog che cortesemente mi ospita, per il solito lungo cappello introduttivo). Naturalmente Isn’t Anything non è un disco natalizio e neanche l’oscuro lavoro di una piccola e misconosciuta band di Dublino: è molto, molto di più.
È l’apice, il vertice, lo zenit, il punto più alto, insomma, raggiunto da una band con molte idee piuttosto confuse, ma che, in questo incredibile album d’esordio, riesce a bilanciare l’esuberanza strumentale e la voglia di innovare e sperimentare con i sentimenti (esattamente così come piace a noi).
È un album oscuro e lento e, al contempo, brioso e eccitante. Ci sono brani irresistibili, quali Nothing Much to Lose e Sueisfine, nei quali alle chitarre dissonanti e trattate si aggiunge il drumming indiavolato e irrefrenabile di Colm Ó Coísóig (poi artefice, con la splendida Hope Sandoval, degli album dei Warm Inventions) e ci sono brani più rilassati, quasi narcolettici, come Lose My Breath e No More Sorry, nelle quali le chitarre, pur non rinunciando al loro rumore bianco, sembrano più avvolgenti e rassicuranti.
Riascoltandolo ogni volta, sembra davvero che Kevin Shield e la sua band non sappiano esattamente dove andare a parare (caratteristica questa che non mi sembra abbandoneranno mai, portando la Creation praticamente al fallimento, nella realizzazione, tra mille ripensamenti, del loro secondo lavoro Loveless), ma è proprio questa indeterminatezza, indecisione schizofrenica a rendere rende Isn’t Anything un lavoro unico e dinamicamente eccezionale.
Ho sempre trovato oziose le discussioni circa la nascita dello Shoegaze, e non mi permetto di prendere posizione sull’argomento (che tanto appassiona chi la musica la segue come un anatomopatologo e non come un cercatore di emozioni e sentimenti): quel che è certo è che in questo album si trovano le basi dell’equilibrio tra rumore chitarristico e dolcezza melodica che tanta influenza (positiva!) hanno avuto nella musica indipendente degli anni successivi.
A differenza dei Jesus & Mary Chain (altra band cui parte della “dottrina” fa risalire l’inizio dello Shoegaze) però, i My Bloody Valentine non si sono limitati a ricoprire di feedback canzoni marcatamente pop, ma hanno inaugurato un modo di fare melodia del tutto originale, singolare, sghembo e caratterizzato dalla infiammabile miscela di angst adolescenziale delle band post-hardcore e spleen tipicamente indie pop.
Le voci di Kevin Shields e Bilinda Butcher si alternano e a volte duettano ma, più spesso, tentano di non disturbare troppo i rumori delle chitarre, limitandosi a intonare timidamente un motivo o una dolce nenia.
Dopo Isn’t Anything (ma un brano come All I Need lo preconizza chiaramente) i My Bloody Valentine sono andati oltre, perdendo però, a mio modesto avviso, un po’ di quel sentimento che su questo lavoro ha almeno lo stesso peso che hanno il tremolo e gli altri distorsori. Grande musica anche quella, ma senza amore.
Credo che se avessi provato a conquistare una compagna di scuola con un brano tratto da Loveless non sarebbe andata allo stesso modo. Con Isn’t Anything ha funzionato. Rabbia e dolcezza funzionano sempre a diciotto anni (e anche dopo).