Francesco Amoroso per TRISTE©
Ci sono band che sono la colonna sonora di precisi momenti della tua vita. Altre che ti accompagnano per interi periodi. Altre ancora, invece, quasi non ti ricordi che ci sia stato un periodo della tua vita in cui non c’erano.
Per me è impossibile individuare i momenti precisi in cui la musica dei Tindersticks ha caratterizzato la mia vita: da quando ci siamo incontrati, praticamente, è stato impossibile lasciarci. Quel che ricordo perfettamente, però, è il nostro primo incontro.
Era una mattina di inizio autunno a Roma, il sole era ancora primaverile e mi attardavo in un grande negozio di dischi di una via centralissima e affollata. Non cercavo nulla in particolare. Avevo, come accadeva spesso allora, un po’ di tempo da ammazzare e lo facevo nel modo che amavo di più.
Negli scaffali, tra grunge imperante e brit pop nascente (e tanta pessima paccottiglia) fui colpito (quasi folgorato) da una copertina decisamente diversa dalle altre: lo splendido dipinto di una ballerina (di flamenco?) con un vestito rosso fuoco e una rosa tra i capelli e, sullo sfondo, un gruppo di tzigani vestiti di bianco.
Sulla copertina solo il nome della band e sul retro poche altre informazioni (neanche i titoli delle canzoni). Anche l’etichetta (This Way Up) mi diceva poco. Ciò nonostante decisi di assecondare l’estro del momento e seguire la mia ballerina, bella e misteriosa.
Compresi quasi immediatamente come quella musica e quella band non sarebbero state una facile conquista, tra chitarre dissonanti, una voce stentorea ma scontrosa, l’affastellarsi di strumenti, false partenze, melodie spesso solo accennate. Mi resi conto, però, altrettanto rapidamente, che sotto quegli abiti vistosi e volutamente poco armoniosi si nascondeva una bellezza immensa, che dietro quei brani irruenti e aspri avrei presto trovato ciò che cercavo.
Il suono della band era già completamente maturo: caratterizzato dal suggestivo baritono di Stuart Staples, intriso e spesso sommerso da una combinazione di romanticismo ubriaco alla Bad Seeds di Nick Cave, di pop barocco, di tocchi di quello che anni dopo avremmo imparato a chiamare chamber folk e di chitarre memori dell’ultimo decennio tra shoegaze e wave.
E le canzoni (ventuno!!), tutte costruite su melodie mai scontate, parole pesanti (e spesso una tromba malinconica o un organo alla Procul Harum) erano un balsamo per le mie orecchie: dalla cullante Blood alla inimmaginabile City Sickness, passando per Patchwork, Marbles, l’intensissima Jism, Raindrops, Her, fino alla chiusura ultraterrena di The Not Knowing.
Ne fui immediatamente innamorato. E ancora non ne conoscevo quasi neanche il nome.
Nel corso della nostra lunga storia d’amore imparai ad amare i Tindersticks e approfondii la loro conoscenza, in una relazione mai esclusiva, ma profonda e impossibile da terminare.
Ci sono stati momenti bellissimi, nei quali la musica della band inglese si è presentata in tutto il suo splendore e in tutta la sua elegante raffinatezza (il secondo album e il live che l’ha seguito di poco), altri durante i quali mi sono reso conto di amarla per la sua crescita e maturazione, che andava di pari passo con la mia (Can Our Love…, The Something Rain), altri in cui mi sono sentito vagamente distante.
Eppure, come spesso accade nei rapporti tra amanti, nonostante spesso l’abbia vista più bella, più sofisticata o elegante, più matura, continuerò, per sempre, a portare nel mio cuore la prima volta che mi sono imbattuto in lei, struccata, giovane, esuberante, misteriosa e piena di vita.
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