Francesco Amororo per TRISTE©
Dopo quindici giorni trascorsi in quella che allora non era ancora la ex-Jugoslavia, passati ad ascoltare sempre le solite cinque o sei cassette, un negozietto di musica, nascosto tra mille altri di souvenir, fu come l’acqua nel deserto. Peccato vendesse quasi esclusivamente cassette di musica folkloristica balcanica (che già allora non sopportavo).
La sete, tuttavia, mi portò a cercare con più attenzione fino a imbattermi nella cassetta (versione jugoslava) del nuovo album di Nick Cave & The Bad Seeds. Ci fosse stata più scelta probabilmente non l’avrei comprata perché i Birthday Party non ero mai riuscito a farmeli piacere e anche la successiva carriera del Signor Caverna non mi aveva mai convinto, con quei suoi toni troppo apocalittici e misticheggianti per i miei gusti.
Ma, relegato nel nulla musicale, finii per aggrapparmi a un artista che non avevo mai potuto soffrire più di tanto.
Evidentemente la fortuna aiuta gli audaci (o, più probabilmente, solo i fortunati): sin dalla commovente elegia iniziale Foi Na Cruz, con il suo eccelso arrangiamento d’archi, risultò chiaro che The Good Son, sesto album di Nick Cave & The Bad Seeds, fosse qualcosa di molto diverso rispetto ai suoi tormentati e oscuri predecessori (verso i quali, con il tempo, ho assunto un atteggiamento decisamente molto più benevolo).
Allora molti (anche tra i critici nostrani) videro in The Good Son un lavoro minore, un album che nel voler concedere qualcosa al pubblico si rivelava più debole, meno puro dei suoi furenti e incompromessi capitoli precedenti.
Nulla di più sbagliato (del resto, guardando in rete, mi pare ormai che tutti siano venuti a Canossa. Leggere qui per delucidazioni sull’espressione, ndr). Anzi l’australiano, senza perdere un briciolo della sua ispirazione intrisa di immagini religiose (la title track è la parabola del figliuol prodigo vista, finalmente, dal punto di vista del bistrattato fratello), per la prima volta costruisce brani dalle melodie ariose e dagli arrangiamenti misurati ma rigogliosi, coadiuvato, naturalmente, dal fedelissimo Mick Harvey.
Le atmosfere irrequiete per le quali Cave era fino ad allora noto non mancano affatto (The Hammer Song, The Witness Song), ma sono questa volta alternate a ballate maestose e cadenzate (Lament, Lucy) e tale succedersi di registri viene esaltato nella eccezionale title track, nella quale si fondono il rock nero e disperato dei Birthday Party e cori gospel, rabbiosi passaggi ritmici e aperture sinfoniche celestiali.
Cave, trasferitosi in Brasile al seguito della sua donna, ripulito e padre di un bambino, sembra aver visto la luce, appare pacificato, ma assolutamente non spento né vinto. L’apice emotivo dell’album (continuo a chiedermi come il nastro della la mia cassetta non si sia spezzato in quel punto nonostante l’infinito numero di volte che ci sono tornato su) è tuttavia il brano meno ambizioso del lotto: una semplice ballata d’amore condotta da organo, pianoforte e voce, dall’arrangiamento sublime, che raggiunge vette di romanticismo quasi imbarazzanti (We talk about it all night long/ We define our moral ground/But when I crawl into your arms/Everything, it comes tumbling down) pur senza cadere nel melenso.
Un piccolo miracolo. Di quelli che capitano davvero di rado. Un brano che è oramai uno standard, un punto di arrivo per Cave e, al contempo, un nuovo inizio, visto che dopo The Good Son i suoi lavori si sono fatti più raffinati, sentimentali e malinconici, regalandoci tante altre canzoni indimenticabili.
Ma The Good Son rimane comunque un vertice assoluto, grazie al perfetto connubio tra parole e musica, alla travolgente intensità emotiva e alla semplice bellezza delle sue canzoni, cantate con l’anima da un artista a volte controverso ma della cui sincerità nessuno a mai dubitato.
Nell’estate del 1990, a Dubrovinik (ancora Jugoslava), Nick Cave mandò le sue navi ad assediarmi, conquistandomi, per sempre, con irridente semplicità. E tutto grazie a una cassetta sibilante acquistata quasi per necessità. Come direbbe lui stesso: le vie del signore (della musica) sono infinite.
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