Morrissey – Viva Hate

Francesco Amoroso per TRISTE©

Non lo dimenticherò facilmente.

Era una notte di inizio settembre del 1987. Di lì a qualche giorno avrei cominciato il mio ultimo anno di scuole superiori. Nel mio letto, appena tornato a casa dalle lunghe vacanze estive, mi accingevo a godermi qualche ora di RAI Stereonotte.

L’ascolto notturno, al buio, del mio programma radiofonico preferito era un rito che andava avanti da un paio di anni, e, quella sera, ero particolarmente emozionato: ero certo che qualcuno degli straordinari speaker che si succedevano nell’arco della nottata, avrebbe mandato un brano dal nuovo album degli Smiths, Strangeways, Here We Come, vista la sua imminente uscita.

Era dall’estate dell’anno precedente che gli Smiths avevano riempito la mia vita (musicale e non) e un nuovo album, benché le loro uscite si fossero susseguite copiose e continue, era per me un piccolo evento.

Non dovetti aspettare molto: appena dopo il GR della notte, che si concludeva a mezzanotte e trenta, il primo conduttore (mi pare fosse Ernesto De Pascale) annunciò che avrebbe mandato il nuovo singolo degli Smiths, ma, praticamente senza prendere fiato, annunciò anche che lo scioglimento della band di Manchester, di cui si vociferava da mesi, era oramai ufficiale.

Fu uno shock fortissimo. Ebbi la sensazione che una parte di me, e neanche troppo piccola, mi venisse improvvisamente e violentemente strappata. Avevo sviluppato un legame con Morrissey e Marr che mi è tutt’ora difficile chiarire a parole, ma che sono certo molti di voi comprenderanno anche senza ulteriori spiegazioni.

Solo, nel buio della mia stanza da bambino, avvolto nel lenzuolo già stropicciato, mi ritrovai a piangere sommessamente, nell’impossibilità di immaginare il resto della mia vita senza quelle canzoni che mi avevano fatto piangere e che mi avevano salvato la vita.

L’album uscì pochi giorni dopo e, naturalmente, lo acquistai immediatamente, lo consumai e lo amai profondamente, ma a ogni ascolto sentivo una piccola fitta al pensiero che quelle sarebbero state le ultime canzoni del duo Morrissey-Marr.

Così, quando, a pochi mesi dallo scioglimento della band, si cominciò a vociferare di un album solista di Morrissey, cominciai a sperare che non tutto fosse perduto e, a primavera, senza aver avuto ulteriori notizie, mi imbattei in Viva Hate, in bella vista nella vetrina del principale (unico?) negozio di dischi della mia cittadina.

L’acquisto fu, naturalmente, immediato. L’amore un po’ meno.

Dopo l’abbandono di Marr, Stephen Street, ingegnere del suono e produttore della band di Manchester, prova a sobbarcarsi l’onere di scrivere le musiche per le parole di Moz, mentre Vini Reilly (Durutti Column) è ingaggiato per suonare la chitarra, ma è chiaro che rimpiazzare Johnny, come autore e come chitarrista è compito improbo.

Il risultato così è altalenante: Viva Hate sembra un disco degli Smiths non fatto dagli Smiths, le sue canzoni, a volte, danno la sensazione di essere un’ibridazione forzata di quella pianta vigorosa e profumatissima. Non mancano, fortunatamente, alcuni guizzi da fuoriclasse, alcune perle assolute che nella discografia di Morrissey andranno ad affiancare i capolavori della band madre.

Everyday Is Like Sunday è un’ ode alla noia di assoluta perfezione, Suedehead un brano dalla presa immediata, Late Night, Maudlin Street, nella quale Reilly riesce a dare il meglio di sé, una lunga ballata intrisa di nostalgia. In altre occasioni il tentativo di Street di sopperire con “trucchi” di studio a una scrittura musicale traballante non premiano le liriche di Morrissey che rimangono sempre struggenti, emozionanti, romantiche, stimolanti e controverse.

In ogni caso l’album è un successo clamoroso: Morrissey conquista la vetta delle chart inglesi e, per la prima volta, dopo una sequenza di stelle del firmamento televisivo e cinematografico, Morrissey compare egli stesso sulla copertina di un suo album (fotografato da Anton Corbijn). Ha, evidentemente, compreso di essere ormai lui la vera star.

L’amore tra Viva Hate e me, però, ci mette un po’ di tempo a sbocciare. Avendo forse troppo amato i lavori degli Smiths, mi capita di notare ogni piccolo dettaglio fuori posto, ogni passaggio meno a fuoco, ogni nota vagamente meno efficacie.

Eppure, come ogni amante degno di tale nome, persevero e non demordo e l’estate del 1988 diventa l’estate di Morrissey, proprio in una “seaside town that they forgot to bomb”. Non c’è, alla fine, un solo brano che non ascolti all’infinito, assaporando ad occhi chiusi le parole cantate dal mio beniamino, riuscendo ad arrivare all’essenza di un album che, anche per ragioni di contiguità temporale, è, almeno dal punto di vista delle tematiche, ancora, in qualche modo, un lavoro degli Smiths, e, pertanto, degno di infinito amore.

Ripenso a tutte queste cose a tanti anni di distanza da quei giorni, mentre provo ancora una volta ad innamorarmi dell’ultimo lavoro di questo quasi sessantenne. Ma non è facile: Morrissey sembra oramai esacerbato (forse perché, nonostante abbia chiesto garbatamente, non gli è mai stato concesso ciò che voleva, neanche una volta nella vita…), vorrebbe essere la voce di una (non) generazione fatta di persone disilluse da tutto, di qualunquisti che guardano incessantemente il proprio ombelico, fa affermazioni iperboliche e populiste, ripetendo spesso se stesso, senza forse rendersi conto che, una vita fa, aveva profetizzato come, se è davvero facile odiare, ci vuole invece forza e stomaco ad essere buoni e gentili.

Non posso volergliene se non è riuscito ad essere del tutto coerente con se stesso. Chi mai lo è stato e mai lo sarà?

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