Ci sono persone che nascono senza età.
Se ci penso bene, ho almeno un paio di esempi lampanti: amici che a 18 anni sembravano avere 30 anni e che fino ad oggi non sono cambiati di una virgola. Sembra strano, dato che i volti sono senza dubbio la figura che più minuziosamente il nostro cervello riesce ad analizzare.
Ne dipende un po’ tutto, dal nostro umore, alla nostra capacità di relazionarci alla gente e, conseguentemente, la nostra attitudine sociale.
Cosmo Sheldrake è un folletto che vive nelle colline di Albione, passa le giornate fra i boschi a saltare da un ramo all’altro delle proprie idee. Cammina lungo i sentieri della propria creatività, a volte, calpesta qualche ramo, lungo il percorso di terra battuta che ha creato. Prende spunto da tutto e da tutti: i suoni degli anni 60/70 dell’Inghilterra psichedelica, i flauti di Ian Anderson, i rumori dei dischi inglesi e dei ruscelli sempiterni, dei verdi e dolci scenari di quell’isola meravigliosa.
Ne nascono pezzi come Solar Waltz, Birthday Suit, Pliocene, Wriggle, tutti brani che, come un’altalena, toccano ora terre floride di elucubrazioni cerebrali, ora scenari soleggianti di virtuosismi musicali. Ha la capacità di teletrasportarci, Cosmo, ogni volta in cui ci avventuriamo nei suoi dischi.
I brani si susseguono con naturalezza e mi portano ad osservare il disco nella sua completezza: non esiste che una visione di insieme delle sue opere. Sono musiche senza corpo, spirituali, senza tempo, che fatico a classificare. Sono meglio dei Big Thief o di Aldous Harding? Quali sono le sue influenze, le ispirazioni? Credo che Cosmo ci obblighi a fruire ed interpretare la musica come si dovrebbe: un’espressione della creatività senza vincoli o registri o classificazioni critiche.
Dalla prima volta in cui lo vidi, sono passati 4 anni e mi rendo conto che certe cose non cambiano, come le facce di certi amici, o la sorpresa di trovarsi a navigare nel mezzo dei suoi flutti creativi. Ancora una volta è la capacità, del tutto personale, di fondere passione e creatività, di creare suoni nuovi e melodie eterne, a sorprendermi ed ammaliarmi. The Much Much How How and I.
Pingback: Francesco Amoroso racconta il (suo) 2018 – Parte I | Indie Sunset in Rome