Ci sono momenti della vita nei quali è utile fare il punto della situazione, per meglio comprenderla e per non essere impreparati.
Ieri ho sentito il bisogno, a un certo punto della serata, di andare a controllare sul vocabolario il significato esatto del termine “euforia”. Il Treccani riporta: “Sensazione, reale o illusoria, di benessere somatico e psichico che si traduce in un più vivace fervore ideativo, maggiore recettività per gli aspetti belli e favorevoli dell’ambiente, tendenza a interpretazioni ottimistiche; può essere segno di una reale condizione di perfetta salute, ma talora è connesso con fenomeni per lo più lievi d’intossicazione (da alcol, stupefacenti, ecc.), o con disturbi psichici, o addirittura con stati tossinfettivi gravi.”
Mi sono tranquillizzato, ma fino a un certo punto.
Escludendo droghe o alcol, che il mio stato fosse dovuto a un piccolo disturbo psichico? (Dovete scusarmi: non sono particolarmente ipocondriaco, ma sono disabituato a provare certe sensazioni, soprattutto se rapportate a particolari eventi…)
In ogni caso, per sicurezza (e per ritrovare la giusta calma che mi permettesse un sonno tranquillo) ho deciso di rifugiarmi nell’unica medicina efficace che conosco: la musica.
Quale che sia il mio malessere (o l’eccessivo benessere) è sempre la musica la mia panacea. E, questa volta, dopo una fortissima scarica adrenalinica, avevo bisogno di un po’ di placida quiete.
L’ho trovata in un lavoro uscito un paio di mesi fa ma, che ho scoperto per caso solo da pochissimo: si tratta dell’esordio discografico degli Hour, una sorta di un “super-gruppo” (e le virgolette sono d’obbligo) proveniente da Philadelphia e formato da membri di band locali quali Nap, Ylayal, Friendship e Utah.
Se questi nomi non vi dicono troppo, non dovete preoccuparvi: non dicono molto neanche a me, ma l’album di debutto, Tiny Houses, pur essendo interamente strumentale non potrà non affascinarvi e avvincervi con la propria eloquenza sonora.
Il sound strumentale, rilassato e placido della band proveniente dalla Pennsylvania sembra quasi provenire da Louisville, nel Kentucky, a cavallo degli anni ’90, ed è un sapiente composto di slowcore e di folk amalgamato al post-rock di una volta, con aggiunta di elementi ambient, di drones e di un pizzico di math rock, il tutto condito con discrezione da intensi field recordings.
Ne risultano brani piuttosto brevi e sentimentali che oscillano tra la serenità e l’inquietudine. Se, infatti, l’umore generale dell’album è arrendevole e malinconico (sin dall’iniziale Beautiful, OH un brano scarno ed elegiaco che, nonostante duri meno di quattro minuti, sembra attraversare lento e inesorabile epoche e confini), non mancano momenti più perturbanti e tormentati, con percussioni più insistenti e un suono più sperimentale (come Town Meeting o la title track, forse i brani più vicini al post-rock dell’intero lotto).
Fondamentali in tal senso sono i field recordings e i samples, che, tra il canto degli uccelli, il vento e le chiacchiere inudibili di una piccola folla che parla sommessamente, fanno spesso da sfondo al semplice e placido suono acustico della band di Philly.
“Questa raccolta di canzoni esplora le crepe e le fessure degli spazi che occupiamo e chiamiamo casa” affermano i membri della band e, in effetti, ascoltando Tiny Houses, è proprio la sensazione di essere a casa quella che emerge (e non sempre è una bella sensazione: quante volte ci è capitato di trovarci a disagio tra le mura della nostra stessa dimora?).
L’album si chiude con From A Bus Window In Central Ohio, Just Before A Thunder Shower, un titolo bellissimo e self explanatory, come direbbero gli anglosassoni.
A volte è nelle cose più semplici che si trova la bellezza, la quiete, l’appagamento. Che siano una piccola casa, un viaggio, un paesaggio o un disco (o il colpo di testa di uno splendido gigante d’ebano…).
Alla fine qualche difficoltà a dormire l’ho avuta lo stesso, ma ieri sera ho assaporato la bellezza, almeno due volte, almeno per un’ora.
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