Francesco Amoroso racconta il (suo) 2018 – Parte I

charlie brown
Francesco Amoroso
per TRISTE©

L’introduzione alle mie “classifiche” di fine anno potrebbe, sostanzialmente, essere identica a quella scritta nel 2017: durante le vacanze natalizie da quando ero ragazzino mi sono sempre divertito a stilare una classifica e riepilogare, per me stesso, l’anno appena trascorso in musica, ma da molto tempo a questa parte non solo i miei ascolti si limitano a ciò che mi piace e che seguo (e, quest’anno, vista la chiusura de L’Attimo Fuggente, ho ulteriormente ristretto la mia ricerca musicale), ma le classifiche hanno perso sempre di più il loro senso e ormai non vengono più stilate per mostrare tanto lo stato di salute della musica quanto la capacità del redattore di scovare artisti di nicchia e spaziare tra più generi.

Ciò detto è inutile continuare a prendermi in giro: visto quanto la musica rappresenta nella mia vita, fare un riepilogo di ciò che ho ascoltato durante il travagliato anno che sta andando a concludersi è comunque sempre un piacere e, spero, un esercizio utile per spingere qualcuno a recuperare qualche album di valore che si era perso per strada.
Anche stavolta valgono le avvertenze dello scorso anno: la divisione in generi è puramente utilitaristica e del tutto arbitraria e, per ogni sezione, troverete il mio album preferito del 2018, seguito da una (più o meno lunga) digressione.

1. Cantautori: Aidan Moffat & RM Hubbert — Here Lies The Body [Rock Action]
In ambito cantautorale (maschile) è almeno il secondo anno che il folk non mi ha dato le soddisfazioni di un tempo, tuttavia tra pop, psychedelia, contaminazioni varie, sperimentazione e richiami al passato e alla tradizione, anche stavolta il piatto è stato ricco.

Il mio album del cuore (davvero per un soffio, rispetto ad almeno altri tre o quattro lavori) è stato l’ennesimo ritorno di Aidan Moffat che, dopo i fasti del connubio con Malcolm Middleton (bello anche il suo Bananas, uscito a fine anno), ha trovato nel chitarrista RM Hubbert il partner ideale per sciorinare, con la sua voce inconfondibile, storie ordinarie e straordinarie e raccontare la provincia del Regno come probabilmente nessun altro mai. L’ennesimo saggio narrativo in forma di canzone inizia con due ex amanti che incrociano brevemente i loro sentieri e si conclude con l’idillica descrizione di un bisognino fatto nella foresta. Con l’aiuto della splendida voce di Siobhan Wilson (e del suo violoncello) , la maestria, la sensibilità e gli splendidi arpeggi della chitarra di Hubbert, il pianoforte rigoglioso di Rachel Grimes, Aidan ci ha regalato una sorta di romanzo pieno di dettagli impareggiabili che, in maniera sublime, bilancia romanticismo e squallore, ideale e terreno, in un amalgama perfetto e irresistibile (e, se non bastasse, la stessa formazione, proprio a fine anno ci ha regalato pure l’ottimo “Ghost Stories For Christmas”, che è molto di più di quanto il titolo lasci intuire).

Quasi allo stesso modo sono rimasto entusiasta (in maniera abbastanza inaspettata) del settimo lavoro dell’australiano Paddy Mann, in arte Gran Salvo. Sea Glass  [Mistletone] è un lavoro riccamente allegorico che esplora come un singolo, vivido ricordo possa modellare la nostra personalità, riemergendo e alterando i nostri pensieri e ricordi con il passare degli anni. Registrato utilizzando anche strumenti non occidentali – tra cui il qanun (dulcimer persiano), la kora (arpa africana) e il koto (strumento a corde giapponese) – e caratterizzato da un coro femminile che ciclicamente ricompare in tutto l’album, è un lavoro dalle mille sfaccettature sonore, che allontanandosi sempre più dalla matrice folk, permette all’artista di Melbourne di comporre piccole suite pop che richiamano Villagers, o i Prefab Sprout più ambiziosi.

Sullo stesso livello (e ancora più lontano dal folk) è Cliffhanger [Lady Sometimes], il secondo album del progetto Grimm Grimm di Koichi Yamanoha  che, rileggendo i più classici stili occidentali con sensibilità squisitamente orientale, ha scritto e registrato, tra bassa e alta fedeltà, un lavoro delicato, gentile e intenso che fluttua costantemente tra dreampop e folk psichedelico. Muovendosi leggiadro tra passato, presente e futuro, ricoperto di una soffice coltre di nostalgia, di malinconia distaccata e di innocente rimpianto Cliffhanger è un porto sicuro e un balsamo rigenerante per le anime in pena.
Sul versante più squisitamente pop ho letteralmente adorato, invece, Bad Contestant [Atlantic], l’esordio sulla lunga distanza di Matt Maltese che, cantando canzoni di (non)amore con ironia che a volte sfocia nel sarcasmo, tratta, senza indorare la pillola, gli aspetti più deprimenti e oscuri della società moderna e dei rapporti umani, in modo diretto e accurato, ma con uno sguardo quasi divertito e con un sorriso, per quanto amaro, sulle labbra. Sonorità jazzy, easy listening, orchestrali e ritornelli pop irresistibili fanno della musica di Matt Maltese un calderone personale ed eccentrico, dominato da melodie perfette e una voce così seducente da mettere i brividi.

Anche Time Elastic [Talitres], il nuovo lavoro dell’amico e straordinario songwriter Danny Green, in arte Laish, è un album ottimamente riuscito e che ho amato moltissimo. Rappresenta, indubbiamente, l’apice di un percorso creativo e sonoro che comprende in sé sia delicate melodie folk che esuberante freschezza pop. Che siano canzoni di immediato impatto o brani più meditativi e avvolgenti, le composizioni di  Time Elastic ribadiscono che ci troviamo di fronte a uno dei maggiori talenti del folk-pop indipendente contemporaneo.

Discorso a sé per Cosmo Sheldrake, cantante, compositore, produttore e multistrumentista, il cui The Much Much How How and I [Transgressive], fatto di canzoni difficili da dimenticare, dal ritornello immediato e dalle ritmiche incalzanti, che spaziano dai Beatles a Stravinsky (ipse dixit), passando per il cajun, il klezmer, il progressive folk e una spolverata di elettronica e field recordings, è, quanto di più fresco ed emozionante mi è capitato di ascoltare quest’anno.

In campo più strettamente folk sono da segnalare il ritorno alle origini di Damien Jurado che con The Horizon Just Laughed [Secretly Canadian], decisamente più pacato e riflessivo dei suoi predecessori, fornisce spunti continui per ritrovare il senso di appartenenza e la passione per la musica e per la vita, finendo per risultare uno dei lavori più personali e sentiti del musicista americano e uno dei suoi più riusciti in assoluto; il sorprendente esordio (arrivato a fine anno, ma così bello da colpirmi immediatamente) di Hjalte Ross, Embody [Wouldn’t Waste], prodotto da un mago come John Wood (tra gli altri Pink Floyd, Nico, Nick Drake, Fairport Convention) che mi ha fatto scoprire questo giovanissimo songwriter danese dal tocco raffinato e maturo, che, pur ispirandosi in maniera palese a Nick Drake, riesce a comporre canzoni appassionanti e melodicamente raffinatissime; il nuovo album di Nick Ellis, Speakers’ Corner [Mellowtone], che contiene canzoni di bellezza e grazia assolute, romantiche, delicate, calde, vivide e vitali, spaziando dal rock’n’roll classico al jazz, da numeri di folk-noir parlato a brani strumentali di sola chitarra; Oak Leaf [Talitres], il secondo lavoro del francese Raoul Vignal che conferma tutte le sue doti di songwriter e arrangiatore, espandendo le sonorità dell’esordio senza perdere freschezza e fascino; 4, il ritorno dell’oscuro cantautore americano Sam Reynolds, è un album essenziale, cullante,prezioso che con le sue tracce minimali riesce a incantare chi, come me, dalla musica chiede solo un sommesso brivido e una delicata carezza; meno immediato, ma dalla bellezza straordinaria, è anche il nuovo album di David Allred, The Transition [Erased Tapes] che, stranamente promosso come esordio, prosegue il discorso poetico e musicale del songwriter americano, sublimandone e distillandone sonorità e contenuti; meno convincente del solito mi è sembrato Micah P. Hinson con il suo When I Shoot At You With Arrows, I Will Shoot To Destroy You [Full Time Hobby] che, tuttavia, menziono per almeno un paio di brani davvero sublimi.

Pur sempre di cantautore si tratta e quindi in questa categoria non posso non segnalare Elastic Days [Sub Pop] di J Mascis, che non varia gli ingredienti base della propria ricetta (la voce sgangherata e malinconica, la carezzevole chitarra acustica e quella elettrica che, al momento giusto, entra con un riff killer), confermando brillantemente le proprie sopraffine capacità di songwriting.

Impossibile, poi, dimenticare la voce di Marlon Williams una volta ascoltata, e in Make Way For Love [Dead Oceans], il suo secondo lavoro solista, il giovane neozelandese dimostra anche un sostanziale salto in avanti dal punto di vista del songwriting. Ispirato dalla fine della sua relazione con la compagna Aldous Harding, è un lavoro autobiografico e profondamene introspettivo che, tra varie delizie, contiene “Nobody Gets What They Want Anymore”, sublime duetto con la Harding, che da solo vale “il prezzo del biglietto”.
A dir poco sorprendente e spiazzante è Minus [Mute] di Daniel Blumberg, non un semplice esordio per il musicista inglese, già alle prese con Yuck e poi Hebronix, ma un’apoteosi. Blumberg è dotato di una non comune forza espressiva che convoglia in brani articolati, emotivi e coinvolgenti.

Allo stesso modo mi ha positivamente sorpreso l’esordio solista del canadese Devon Welsh, Dream Songs, che allontanandosi dall’elettronica minimale dei Majical Cloudz, ha scelto di ornare la sua profonda voce baritonale con arrangiamenti organici scanditi da una sentimentale sezione di archi, creando un album commovente e profondamente introspettivo.


2. Cantautrici: Soap&Skin — From Gas to Solid / You Are My Friend [PIAS]
Non ho alcun dubbio che il mio album preferito in ambito di cantautorato femminile (e, forse, in assoluto) sia quello di Anja Plaschg: a quasi 10 anni dall’oscuro capolavoro Lovetune For Vacuum la maturazione personale e musicale dell’artista austriaca si manifesta sia con lo scolorare della rabbia e del nichilismo, sia con una maggiore attenzione alla composizione e agli arrangiamenti. La musica della Plaschg ne esce trasfigurata: si passa da un piano elegiaco all’elettronica incantata, dall’ambient corale a cupi suoni di organi e i synth, fino ad essere avviluppati e vinti dalle atmosfere spirituali di un lavoro immenso.

Altrettanto notevole, ma più concettuale è Aviary, quinto lavoro di Julia Holter, impegnativo, complesso e ambizioso, composto da quindici lunghe tracce (per quasi un’ora e mezza di musica) dove riaffiorano la minuziosa avanguardia di Julia Holter, gli arrangiamenti lussureggianti e delicati, i ritmi jazz, i passaggi classicheggianti e il pop teatrale e barocco e la sua capacità di coniugare il songwriting con l’improvvisazione e la ricerca.

Si conferma tutto il talento di Lucy Dacus che con la sua seconda opera, Historian [Matador], alza l’asticella sia dal punto di vista compositivo che poetico. Le sue canzoni sono riccamente arrangiate, sentite, profonde e riescono anche a infilare ritornelli indimenticabili che colpiscono dritti al cuore. Il brano di chiusura, “Pillar Of Truth” è uno dei più commoventi dell’anno.

E’ arrivato all’improvviso a fine anno il nuovo progetto di Elena Tonra di Daughter: Ex:Re [4AD] uscito per l’urgenza della musicista inglese di narrare a cuore aperto il racconto crudo e doloroso di una separazione. All’inconfondibile voce roca ed espressiva e a liriche profonde e personali si affiancano sonorità alla Broadcast, ritmi netti e synth attutiti, trip hop, archi,sparse note di pianoforte e chitarra acustica per un album intenso, magnetico e sincero.

Quest’anno è uscito anche I Need To Start A Garden [Mamabird], l’atteso esordio di Haley Heynderickx che, con una splendida voce, pur continuandoci a trasportare nel suo folk velatamente malinconico, riesce ad arricchire, senza appesantire, la struttura melodica dei suoi brani, tirando a volte fuori anche un’anima più rock e dimostrando grandi capacità di interpretazione e composizione, grazie liriche profonde e a un cantato di rara bellezza.

Childqueen [Fat Possum] è il secondo lavoro della losangelina Kadhja Bonet, che conferma non solo l’incredibile voce della giovane, capace di ogni virtuosismo pur rimanendo sempre spontanea, aerea e non forzata, ma anche la sua capacità di suonare, scrivere e arrangiare, con canzoni di una bellezza inarrivabile, che si muovono leggiadre tra jazz, soul, sperimentazione, atmosfere trascendenti e orchestrazioni degne di una colonna sonora sixties.

Mi è bastato, poi, il titolo per innamorarmi perdutamente di May Your Kindness Remain [Fat Possum], settimo album (a 27 anni) di Courtney Marie Andrews che si muove mirabilmente su coordinate alt-country piuttosto canoniche, popolato come è da personaggi vilipesi e calpestati, che rimangono tuttavia ottimisti e positivi. In un’epoca (per gli Stati Uniti e per tutto l’Occidente) di decadenza economica e sociale, è sempre nell’amore verso il prossimo e nell’approccio alla vita lontano dal rancore e dall’odio che risiede la salvezza. Come non rimanere folgorati dalla schiettezza e dalle struggenti ballate di Courtney?

Cusp è l’eccellente quinto album di Alela Diane, nel quale la cantautrice dell’Oregon usa, per accompagnare la sua voce austera e pensosa, il pianoforte più della solita chitarra acustica con risultati, in alcuni casi, davvero inarrivabili sia emotivamente che dal punto di vista dei testi.

Non conoscevo (mea culpa!) l’australiana Sarah Mary Chadwick, ma il suo Sugar Still Melts In The Rain [Rice Is Nice] è un ottimo punto di partenza per iniziare ad amarla. La sua voce sentimentale e peculiare, i suoi testi profondamente personali, il suo modo di suonare il pianoforte lo rendono un lavoro unico, singolare e a tratti travolgente che meriterebbe maggiori riconoscimenti.

Colt [Sacred Bones] è il primo album di Hilary Woods, dopo la carriera come bassista dei JJ72, ed è un luogo crepuscolare dove le composizioni della musicista irlandese si muovono tra solennità e minimalismo in maniera non dissimile da quanto fa Marie-Louise Munck nel suo Moon Dogs [Voices Of Wonder], un capolavoro, ambizioso e raffinato, fondato su sonorità eteree e notturne, nelle quali fanno capolino il dark, l’elettronica, accenni di jazz e una oscura malinconia nordica.

Sulle stesse coordinate sonore, benché ancor più minimali e dilatate, si muove Anne Garner che incanta e rapisce, sciorinando un chamber-folk quasi impalpabile, nelle otto canzoni di Lost Play, fatte di archi, chitarra, sax, arpa e di una vocalità pressoché incorporea.

Anche in ambito più strettamente folk ci sono state molte uscite pregevoli: a partire da Laura Gibson che, con Goners [City Slang], ha sfornato il lavoro più ambizioso della sua carriera, grazie ad arrangiamenti lussureggianti e ampio uso di archi e fiati, per proseguire con Shades, l’esordio di Vera Sola che ha pescato a piene mani dalla tradizione folk, dal country più fosco, dal jazz, dal blues e dal soul, amalgamando tutti gli elementi in sonorità oscure e seducenti, dal gusto vagamente retrò, e con abysskyss, l’album solista di Adrianne Lenker che, in libera uscita dai Big Thief, si è servita solo di voce, chitarra e arrangiamenti quasi impercettibili per smuovere le mie corde più profonde e conquistare definitivamente il mio cuore, così come ha fatto Helen Ferguson, in arte Queen Of The Meadow, che nel suo secondo album A Room To Store Happiness [Tiny Room], con toni ovattati e un’essenziale matrice folk, ha costruito dieci bozzetti dalle tinte pastello, trasognati e incantevoli. Una segnalazione la meritano anche Olivia Chaney con il secondo lavoro Shelter, Lindsay Clark che si è fatta apprezzare per Crystalline, il ritorno alla forma di Cat Power con Wanderer, Marissa Nadler sempre convincente nel minimale For My Crimes, Sara Forslund che in Summer Is Like A Swallow ha ampliato la palette sonora del già ottimo esordio e i convincenti debutti di Jessica Risker (I See You Among The Stars), Anna St. Louis (If Only There Was A River) e Fenne Lily (On Hold).

Last, but not least, i due progetti che hanno visto coinvolta quest’anno la mia adorata Chantal Acda: l’album dal vivo con Bill Frisell, Live At Jazz Middelheim [Glitterhouse] e Nu Nog Even Niet [Oscarson] nel quale Chantal ha prestato tutta la sua sensibilità musicale ai versi della poetessa olandese Lotte Dodion, cantandone i versi con la solita inconfondibile voce, forte e fragile, profondamente espressiva e rivestendo le sue poesie di sottili trame elettroniche, di pianoforte e di delicati tocchi di chitarra acustica.


3. Duetti e progetti estemporanei: Josienne Clarke & Ben Walker — Seedlings All
Di questa (insensata) categoria ho amato immensamente Seedlings All [Rought Trade], sesto album di Josienne Clarke & Ben Walker, il primo della loro carriera a essere totalmente composto da brani originali, si allontana dal classico folk dell’ormai consolidato duo, con arrangiamenti ricchi e articolati che non tolgono nulla del calore e della sincerità degli esordi e regalano alla proposta musicale di Ben e Josienne (la cui voce ne risulta addirittura esaltata) maggiore spessore e originalità per un lavoro ammaliante e maturo. Pur non sembrando altrettanto stabile, il duo formato dai musicisti australiani Emma Russack & Lachlan Denton è riuscito a incidere ben due lavori nel 2018, il secondo dei quali, Keep On Trying [Osborne Again], costituito da canzoni folk pop, malinconiche e semplici, orecchiabili e di piacevole fruizione, è stato un’autentica rivelazione grazie alla bellezza che si nasconde dentro la semplicità delle loro brevi canzoni malinconiche e emozionanti. Sarà un’avventura, ma il connubio tra Tracyanne Campbell, in pausa dai Camera Obscura, e  Danny Coughlan (già attivo come Crybaby), Tracyanne & Danny [Merge] mi ha immediatamente convinto grazie a un ibrido sonoro, che risentendo sia della malinconica dolcezza degli scozzesi che del tocco volutamente demodè dell’artista inglese, ha dato vita a un susseguirsi di delizie pop, arrangiate in maniera sopraffina e prodotte con un tocco vintage da Edwyn Collins.

Ancora voce maschile e femminile che si alternano per il progetto Frontperson,  nato dall’incontro tra i canadesi Kathryn Calder (voce e tastiera dei The New Pornographers) e Mark Andrew Hamilton (Woodpigeon). Frontrunner [Oscar Street] è un album riuscitissimo e ammaliante grazie alla voce soave di Kathryn e a una serie di canzoni pressoché perfette. LUMP è nato, invece, dalla collaborazione tra Mike Lindsay (Tunng eThrows) e Laura Marling con la seconda a dare parole e voce alle composizioni ambiziose e bizzarre del primo, per un breve e vivace lavoro che miscela chitarre trattate, sintetizzatori Moog, ritmiche incalzanti, drones, ma anche fiati e delicati e avvolgenti suoni organici.

Nuovo coinvolgente capitolo, infine, per il progetto Distance, Light & Sky  – Gold Coast [Glotterhouse] – formato da Chris Eckman e Chantal Acda (con Eric Thielemans) con un album di accattivante folk nel quale si alternano (e a tratti si intrecciano) la voce profonda e ruvida di Eckman e il canto delicato della Acda.

Fine prima parte (!)

Parte II

2 pensieri su “Francesco Amoroso racconta il (suo) 2018 – Parte I

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