Damien Jurado – The Monster Who Hated Pennsylvania

Francesco Amoroso  per TRISTE©

Mettetevi nei panni di un cantautore folk che si appresti a lavorare sul suo prossimo album. Magari nei panni di uno di quelli che hanno una lunga e (moderatamente) gloriosa carriera già all’attivo.
Quale sarà la vostra prossima mossa? Abbandonare e evitare tutti i cliché del folk, le chitarre pizzicate, i testi introspettivi, i più o meno poetici commenti sulla vita e sulla società, rischiando di alienarsi lo zoccolo duro dei fan, nella speranza che la svolta possa interessare e convincere la critica, sempre pronta di solito, a scagliarsi sulla monotonia e scarsa attitudine alla sperimentazione dei rappresentanti del vostro genere musicale? Oppure preferireste muovervi su un terreno più sicuro, in un ambiente protetto che possa preservare intatte le vostre caratteristiche, senza sconvolgere chi vi segue da tempo, pur nella consapevolezza che, con molta probabilità, se tutto va bene, vi sentirete dire “l’ennesimo buon disco di… che non dice molto di più di quanto già detto dall’autore”?

Damien Jurado, che è decisamente molto di più del solito cantautore folk (una volta li definivamo “barbuti” e lui la barba non l’ha mai portata) non ha mai aderito né all’una né all’altra scuola di pensiero, lasciandosi sempre trasportare dall’ispirazione del momento e dalla voglia di collaborare con musicisti che, di volta in volta, lo hanno stimolato.
Giunto al diciassettesimo (!) album in studio, la prospettiva dell’artista americano non è cambiata e così anche The Monster Who Hated Pennsylvania, il suo quarto album dal 2018, riesce ad essere un lavoro profondamente ispirato e genuino.

Nel suo primo album per l’etichetta personale Maraqopa Records, Jurado racconta ancora una volta storie ordinarie e dolorose di persone che combattono contro le avversità della vita coerentemente con la propria visione del mondo e della musica.

Dal punto di vista sonoro, abbandonando definitivamente le produzioni ambiziose e scintillanti del terzetto “Maraqopa”, “Brothers And Sisters Of The Eternal Son” e “Visions Of Us On The Land”, realizzati tra il 2012 e il 2016 in compagnia di Richard Swift (e la loro psichedelia moderna e sperimentale), l’artista di Seattle ha lavorato nuovamente per sottrazione, scrivendo e arrangiando le proprie composizioni all’insegna del minimalismo (con l’aiuto del polistrumentista Josh Gordon che impreziosisce la chitarra acustica e la inconfondibile voce di Jurado con estremo giudizio e senza mai risultare invadente), tuttavia questa volta il suo approccio alla materia sonora è più libero ed eclettico, e a passaggi prettamente acustici e asciutti si alternano ballate più raffinate e elegantemente cesellate.

Dalla delicatezza scabra e desolata di Minnesota (“I walked out in the morning, Ray/ You stayed here in the room/ I preferred the weathered sky/ The sound of the echoing earth“) al feedback lancinante che irrompe in Johnny Caravella, che descrive in dettaglio la disintegrazione di un uomo che sa che dovrebbe lasciarsi alle spalle il caos che l’ha inghiottito senza averne la forza, (“I know I should leave, but I don’t have the shoes or the courage“), a Male Customer #1, straziante bozzetto in bilico tra squallore e poesia (“The loneliest place I’ve ever been is in your arms/ Second chances/ There are no second chances/ The thrill of romance is gone“) le canzoni di Jurado ci presentano personaggi e narrazioni che non possono lasciare indifferenti.

I suoi testi, sempre coinvolgenti, sono particolarmente efficaci anche grazie a un’immaginario fatto di sogni ricordati a metà, situazioni surreali, figure che si muovono al limitare tra realtà e fantasia (“I’ve been keeping me sick/ Far much better than you/ Here’s an out should you doubt leaving). Mettendo sempre a fuoco il suo obiettivo su un’umanità di reietti e solitari, Jurado sfugge ai cliché di genere grazie alla sua capacità di raccontare i propri personaggi senza pietismo, con profonda empatia e con grande e poetica immaginazione (“I was a north wind inhabiting/ You were a falling chair/ I wrote your name down/ And kept at arm’s length/ Loving you from afar“).

Incontrare ed entrare nelle vite di Helena, Tom, Dawn, Langston, Joan (anche se, in questo caso, si tratta di un incontro davvero fuggevole), Jennifer o dell’anonimo cliente #1 è come immergersi in un breve racconto, o, meglio, avere il privilegio di scoprire qualcosa di più su un personaggio secondario di una pellicola ambientata tra i diseredati dell’America profonda.

Si deve lasciare che queste canzoni penetrino un po’ sottopelle, si devono avvicinare i suoi personaggi con empatia e volontà di comprensione e, allora, The Monster Who Hated Pennsylvania riuscirà nuovamente a commuovere.
A un artista come Damien Jurado bastano meno di trenta minuti per conquistare e dimostrare, ancora una volta (la diciassettesima) tutto il proprio immenso talento.

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3 pensieri su “Damien Jurado – The Monster Who Hated Pennsylvania

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