Francesco Amoroso per TRISTE©
This is not a surrender or a farewell
Esistono legami tra esseri umani che non è sempre facile definire. Affetti, amori, semplici affinità, quiete passioni o pura ammirazione da lontano.
Non serve neanche un contatto diretto per sviluppare queste quasi indefinibili forme di connessione. Basta sentire che i cuori e le anime vibrino alla stessa frequenza perché si crei un nodo che il tempo e le circostanze non riusciranno a sciogliere.
E’ raro che accada, ma quando accade ci si sente arricchiti e appagati.
Nel mio caso (ma sono certo anche nel vostro) è stata spesso la musica il tramite per formare alcune relazioni elettive.
Una di queste è quella che porto avanti (in maniera del tutto unilaterale, almeno fino a quando non ho avuto il grande piacere di intervistarlo) con David Feck, artefice principale dell’epopea minore dei londinesi Comet Gain.
Oggi questo straordinario artista (che probabilmente si schermirebbe se provassi a definirlo così in sua presenza) debutta con un album solista, For Those We Met On The Way, che rinnova, anzi rafforza, quell’indefinibile, eppure fortissimo, legame.
For Those We Met On The Way, che esce per la tedesca Tapete a nome di David Christian (è il suo nome di battesimo? E’ l’ennesimo alias? Non siamo abbastanza intimi perché me lo confessi) and The Pinecone Orchestra (e sull’orchestra delle pigne ci torneremo), è un album struggente, elegiaco, profondo, vitale, nostalgico, sincero e commovente.
Potrei fermarmi qui (e probabilmente farei un buon servizio a David e anche a voi) ma le canzoni di questo lavoro (e di quelli dei Comet Gain che l’hanno preceduto) mi coinvolgono emotivamente, sono così vicine al mio cuore (e, a volte, così “close to the bone“) che non ne ho alcuna intenzione.
Se la ricetta dei Comet Gain è sempre stata un bilanciatissimo (eppure le dosi sono certo fossero stabilite “a occhio”) impasto di rabbia e sentimento, di chitarre C86 e di Northern Soul, di mod e di punk, di politica e nostalgia, working class e nouvelle vague, l’album solista di David rappresenta una sorta di summa, una specie di chiusura di un capitolo e l’inizio di qualcosa di nuovo, diverso e altrettanto stimolante.
David, infatti, ha lasciato la Gran Bretagna qualche anno fa, spinto dalla inaspettata nascita di un figlio e dal disgusto per la Brexit, e si è rifugiato in campagna, nel sud della Francia.
Così For Those We Met On The Way è un’opera che inevitabilmente fa i conti con i languori del ricordo e della nostalgia. Non si tratta, tuttavia, di un album nostalgico in senso stretto, perché David Chrtistian, come un archivista scrupoloso e appassionato, si occupa del passato per documentarlo e lasciarselo alle spalle.
Con una buona dose di autoironia (e il solito guasto per il vintage) la copertina dell’album lo presenta, virato seppia, seduto su una sedia di vimini con il sole alle spalle, le gambe accavallate, una bella chitarra elettrica al fianco e una languida distesa d’acqua dietro di lui, che lambisce la riva sulla quale sorge la sua nuova casa nel sud della Francia.
Foto e grafica di copertina richiamano immediatamente alla mente certi album di country folk del passato e la citazione non è affatto casuale, visto che, stavolta, sono le ballate a farla da padrone ed è spesso una lap steel guitar a impreziosirle.
Ma sarebbe un errore farsi ingannare dall’atmosfera bucolica e dall’espressione pacifica del volto di David, perché, pur essendo un lavoro decisamente più pacato rispetto agli standard cui ci aveva abituato (con l’eccezione forse di Paperback Ghosts, album dei Comet Gain del 2014 con il quale questo sembra avere un certo legame sonoro e di attitudine), For Those We Met On The Way è un album ancora una volta ferocemente onesto (con una certa enfasi su “ferocemente”), intriso di quella sbalorditiva e brutale poesia del reale che ha sempre caratterizzato le composizioni dell’inglese.
E’ più personale e introverso del solito, forse meno politico, ma, come ci insegnavano gli Hüsker Dü, la rivoluzione comincia ogni mattina, davanti allo specchio. E, poi, “il personale è politico” per riprendere un vecchio (e veritiero) slogan.
Così, anche raccontandoci delle proprie impressioni, dei propri ricordi, della propria vita interiore, David Christian riesce a essere diretto e universale e se le sue storie non sono più popolate solo di reietti e outsiders ciò non di meno rimangono potenti e vere e rilevanti.
Album solista, si diceva, ma sempre frutto di una collaborazione, questa volta con Mike e Allison Targett degli Heist, presso il cui studio/fienile sono state registrate le canzoni, in compagnia del vecchio amico e batterista Cosmic Neman (Herman Düne), a dare vita allo scheletro dei brani, e con una sorta di parterre de rois (ci troviamo pur sempre in Francia…) – dalla compagna Anne-Laure Guillain e James Horsey e Alasdair MacLean (The Clientele), Ben Phillipson (18th Day Of May, Trimdon Grange Explosion, Comet Gain), fino a Gerard Love (Teenage Fanclub, Lightships) – a formare l’orchestra delle pigne.
L’organo e la steel guitar caratterizzano In My Hermit House (“the haunted notebooks I threw them away/ swapped for a beautiful day“), brano uptempo e corale, venato di ironia e malinconia, che stabilisce il passo di tutto l’album.
Si susseguono, poi, incalzanti e struggenti al contempo, ballate come Goodbye Teenage Blue e When I Called Their Names They’d Faded Away (titoli così perfetti li può trovare solo uno come David), la languida Pay Me Later Coco + Dee, con il suo lungo crescendo finale, brani sincopati e diretti come The Ballad for the Button-Downs (“we are the rejects, the lower class, we are the cretins, uncivilized minions, 2nd rate human beings, we are the heathens, grab your spirits and head for the hills/ the heathens have won again“), nella quale il classico suono dei Comet Gain fa capolino, e la conclusiva, magnifica e folkeggiante Moms and Dads and Other Ghosts, a costruire un album dall’animo inquieto eppure dotato di una tenerezza infinita, che solo coloro che davvero hanno amato e amano i Comet Gain non si stupiranno di trovare.
Tra coloro che David Christian (Feck) ha incontrato lungo la strada e a cui ha dedicato il suo lavoro solista – un album per il quale non è facile trovare adeguate parole di elogio – sono sicuro di esserci anche io, anche se lui non lo sa.
Basterebbe un brano come Moms and Dads and Other Ghosts, per rinnovare e suggellare (non è un caso sia stata posta alla fine dell’album) quel legame così labile eppure così tenace che da quasi trent’anni mi avvince a David Christian e alla sua esemplare, brutale, affascinate e feroce poesia.
“I hope your life is beautiful, that you fill up your days with the wonderful/ I hope you find your own kind of magic kingdom to fill you up and not feel broken/ and your mother will soften your scars, she’ll chase away all the night panthers/ and if halfway through your life a sad memory comes calling/ treat it like a friend and send it out to sea/ and I’ll live inside you as long as you need me/ remember me, remember me” canta David per il figlio Emile e, in quel preciso momento. la mia e la sua anima, il suo cuore e il mio, vibrano esattamente sulla stessa lunghezza d’onda.
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