Francesco Amoroso per TRISTE©
All’improvviso mi è tornata in mente un’affermazione che Bobby Gillespie, il leader dei Primal Scream, aveva fatto alla fine degli anni ’80 del secolo scorso. Nel tentativo di difendere il suo primo album, Sonic Flower Groove (“E diciamolo! Diciamo una volta per tutte la verità nascosta dal velo di Maya del diktat elettronico: questo é il miglior album dei Primal Scream.” cit.), dalle feroci critiche piovutegli addosso dalla stampa inglese che lo tacciava di revivalismo, il buon Bobby affermava che se fare pop psichedelico nel 1987 era considerato revival, allora si sarebbe dovuto considerare una forma di revival anche fare sesso, nel 1987 come in qualsiasi altra epoca. In fondo, sosteneva ancora Gillespie, se ami molto fare qualcosa perché non potresti ripeterla, con lo stesso piacere, ogni volta che ti va?
Cito a memoria perché di questa affermazione – che, allora minorenne, mi colpì molto (anche per l’esplicito riferimento al sesso che per me era ben lungi dall’essere un revival…)- non trovo traccia.
Mi è tornata comunque in mente, però, mentre ascoltavo il nuovo album dei canadesi Tallies, Patina, un album che, senza giri di parole, definirei bellissimo e che, invece, mi sembra sia poco considerato proprio per il suo essere un album decisamente revivalistico. Ma, appunto citando Bobby, se una cosa è bella e ti da piacere perché non dovresti ripeterla?
I Tallies, per chi non li conoscesse, sono una band canadese che, formata da quattro amici poco più che ventenni (Sarah Cogan, voce e chitarra ritmica, Dylan Frankland, chitarra, Stephen Pitman, Basso e Cian O’Neill, batteria), è riuscita, nel 2019, con il proprio omonimo album d’esordio a rinverdire i fasti del dream pop di matrice britannica a cavallo tra gli anni ottanta e novanta. Quando l’album uscì, rimasi, inevitabilmente, esterrefatto e affascinato dalle sue sonorità, da quel piccolo miracolo incantato che si muoveva sinuoso tra il dream pop e lo shoegaze più etereo, pieno di melodie immediate che rimandavano in maniera sfrontata alle chitarre degli Smiths, alle armonie degli Aztec Camera e alle alchimie sonore dei Cocteau Twins. I Tallies riproponevano sonorità del passato, è vero, ma lo facevano con personalità e grandi doti di songwriting (che è poi la differenza principale tra chi ripropone pigramente un suono e chi lo elabora tirandone fuori qualcosa di nuovo ed eccitante).
Ora ridotti a un terzetto, Cogan e compagni ritornano con Patina (che esce, guarda caso, proprio per la Bella union di Simon Raymonde, originario bassista dei Cocteau Twins), un album dalla gestazione lunga e travagliata e, con la stessa delicata sfacciataggine dell’esordio, non si nascondono affatto.
Sin dalla copertina dell’album le radici e ascendenze della band canadese sono sventolate come un vessillo di cui andare orgogliosi: se quella dell’omonimo album d’esordio era un evidente omaggio a Peter Saville e a Power, Corruptions and Lies, la copertina di Patina richiama in maniera evidente il lavoro del grandissimo e compianto Vaughan Oliver per la 4AD.
Musicalmente, invece, pur mantenendo le caratteristiche peculiari della band – gli arrangiamenti alla Cocteau Twins (era Heaven Or Las Vegas), le chitarre smithsiane e la voce di Sarah Cogan che sembra sempre di più quella di una Harriet Wheeler meno triste (e sfido chiunque abbia amato i Sundays a non trovarlo una sorta di omaggio, commovente e sentito)- Patina abbraccia in maniera più decisa il dream pop e ha, a tratti, qualche punto di contatto con i conterranei Alvvays (con i quali, non a caso, i Tallies condividono il produttore, Graham Walsh).
A esclusione di qualche passaggio più ruvido e prettamente shoegaze (Wound Up Tight), le nove tracce che compongono l’album sono caratterizzate da suoni spigliati e atmosfere sognanti, con chitarre brillanti e intrise di riverbero e ritmi vivaci.
Così come nell’esordio, la band dimostra anche stavolta notevolissime capacità di scrittura sciorinando brani (indie)pop immediati e adorabili come Hearts Underground (quanto di più vicino al jangle pop abbiano mai scritto) e No Dream Of Fayres (cristallina, sognante e piena di speranza, pur esplorando i meandri della depressione adolescenziale: “I don’t want to wake up, I just want to lay back down / I know it’s not the way I planned it”), delicate ballate quali Am I The Man (intrisa di gentile psichedelia), Heaven’s Touch (persa tra le nebbie, ma con una spina dorsale chitarristica affilata) e Catapult (il più evidente rimando ai Sundays) e canzoni come Memento e Special che si collocano, tra luci e ombre, in un limbo nel quale la dolcezza si sposa al brio vibrante dei ritornelli.
La conclusiva When Your Life Is Not Over rimanda in maniera obliqua alle melodie e alle ritmiche degli Smiths e l’album raggiunge il suo apice emotivo quando Cogan canta, con voce malinconica e empatica, “You learn to love lonely“.
Se Tallies era un piccolo miracolo, Patina è, senza dubbio, la conferma di un clamoroso stato di grazia.
E’ probabile, ne sono consapevole, che i Tallies non saranno mai amati come le band cui si ispirano e che i loro due lavori non finiranno nelle classifiche dei dischi più influenti del nuovo millennio ma, per riprendere Bobby Gillespie, mi chiedo: mentre fate l’amore, obnubilati dal piacere, rapiti e vicini all’estasi, state lì a chiedevi se l’amplesso finirà tra le vostre migliori performance amorose? Se il/la/i partner sono tra i dieci (cinque? Tre?) migliori amanti che avete avuto? Oppure vi lasciate andare e vi godete l’attimo fuggente?
Nel primo caso fatevi vedere da qualcuno davvero bravo. Nel secondo caso, invece, Patina, con le sue linee melodiche purissime, intrise di nostalgia ed emozioni e con le sue canzoni sempre sul limitare tra euforia e commozione è, decisamente, ciò che fa per voi.
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