Francesco Amoroso per TRISTE©
“E poi diciamolo: in questo mondo è difficile pensare a chiunque come a una persona vera. Sono tutte immagini su qualche schermo. Perfino quelli che conosciamo di persona alla fine si riducono a un’immagine su uno schermo, quando interagiamo con loro e con i loro account sui social“.
“Se credessimo a tutti, se credessimo davvero che gli altri esistono, allora dovremmo preoccuparcene. Dovremmo cambiare le nostre vite.”
(Jason Mott – Che razza di libro!)
Crediamo di conoscere gli altri ma, come diceva il cupo Robert Smith tanti anni fa, “no one ever knows or loves another“. L’ottimistico adagio vale ancora di più per gli incontri che si fanno online (per non parlare delle situazioni sentimentali che nascono in rete).
Conosciamo e ci innamoriamo di un’icona, un’immagine un simulacro di qualcuno che non siamo esattamente sicuri chi sia veramente o se esista, addirittura.
Eppure la nostra fiducia rimane sempre piuttosto salda, nonostante tutto. Ai limiti della credulità. Crediamo e, allo stesso tempo, siamo scettici su tutto. Gli altri esistono finché ci sta bene che esistano. Quando diventano un problema, in fondo, basterà cancellarli, con un click.
Quando ho letto, nel mio perpetuo vagare in rete in cerca di nuova musica eccitante, che c’era una promettente artista all’esordio il cui nome era Shirley Hurt, nell’ascoltare le sue prime canzoni mi sono stupito di come il suo cognome si adattasse perfettamente ai testi, senza che mi sia passato per la testa che quello fosse un nome d’arte. Che dietro quelle canzoni sincere, ci fosse, comunque, una piccola messa in scena.
Ma, si sa, crediamo a ciò a cui vogliamo credere.
E, invece, Shirley Hurt si chiama Sophia Ruby Katz (e chissà se, si fosse presentata con il suo nome, avrei avuto la curiosità di ascoltare il brano di debutto) e viene da Toronto.
Il suo album d’esordio, omonimo, uscito per la piccola Telephone Explosion Records, contiene nove brani di “experimental indie folk-pop” -almeno a dar credito alla sua stessa definizione- ed è stato preceduto da un singolo, Problem Child, il cui video ha come protagonista la nonna di Hurt/Katz che segue la nipote nella preparazione di una torta.
Sarà che sono sensibile all’argomento (sia alle nonne che alle torte per essere precisi) ma ne sono rimasto ipnotizzato immediatamente.
Il brano mi ha dato subito la sensazione di trovarmi di fronte a una canzone folk pop pressoché perfetta, che ricorda, nelle inflessioni vocali, nelle variazioni e nelle scelte strumentali, addirittura quella aliena sublime di Aldous Harding.
A proposito di Shirley Hurt (l’album, non l’artista), Katz ha detto: “Questo album mi sembra solitario e consumato dalla strada. La donna che lo ha scritto era sicuramente nell’inverno della sua vita. Il paesaggio sembra blu e arancione bruciato. C’è nostalgia e desiderio, che mi piaccia o no.“
Sophie Katz, insomma, prende in qualche modo le distanze dal suo alter ego Shirley Hurt, a rimarcare che, nonostante l’intensità delle sue canzoni, c’è una parete sottile (magari si tratta di un lenzuolo) che separa l’artista dalla sua arte. Ne siamo consapevoli ma quando ci viene detto esplicitamente (come succede con la già citata Harding) rimaniamo sempre un po’ spiazzati.
L’album, che è stato scritto in gran parte durante un viaggio di alcuni mesi lungo la costa occidentale americana e registrato con lo straordinario sassofonista Joseph Shabason, il bassista Chris Shannon, il chitarrista Harrison Forman, il percussionista Jason Bhattacharya, il violinista Jacques Mindreau e il pianista Nick Durado, è ben più eclettico e variegato di quanto la definizione di indie folk possa far sospettare. Le sue melodie, rilassate e insieme eccitanti, gli arrangiamenti curatissimi e originali e una voce unica, seducente e dolcemente ironica danno vita a canzoni che pazientemente si insinuano sotto pelle.
Sono morbidi accordi di pianoforte e la voce gentile di Hurt a gettare le basi per The Bells, il brano di apertura che esalta il fascino dell’amore quando rimane sfuggente, inafferrabile. Il brano si apre con l’affermazione “My Life Is Like A Koan/ It’s designed to make me break”, per poi dipanarsi lentamente e in delicato crescendo: la batteria smorzata e le quasi impercettibili armonie vocali maschili evocano una presenza quasi spettrale, che si tratti di un amante sfuggente o di una relazione passata non è dato saperlo.
Problem Child è costruito attorno a un arrangiamento che richiama gli anni settanta con il flauto di Shabason che conduce un arrangiamento minimale eppure efficacissimo che consente alla cantato roco e avvolgente di Katz di prendersi i riflettori.
Charioteer è forse il brano più pop dell’album, con i suoi ritmi sinuosi e le note di pianoforte giocose che conferiscono all’insieme un’atmosfera quasi teatrale, eppure, anche qui, la voce di Shirley Hurt riesce a donare sfumature più cupe e inquietanti, che culminano nel finale sfumato dal sassofono di Shabason.
Empty Hands è un incantesimo vaporoso e melodico (“But you’ll find another one baby/ There’s a ton of them running round lately/ Or so they say”). Accompagnata ancora dal sassofono di Shabason, la canzone cresce fino a esplodere nel reiterato e movimentato finale. In All Looks The Same To Me, la chitarra acustica accompagna la voce che appare impassibile, eppure canta versi come “I am tired, I am weeping… I am smiling, I am screaming”, lasciano un retrogusto vagamente inquietante.
La voce di Shirley Hurt è sempre inafferrabile e magnetica mentre canta in diverse tonalità, esplorando il suo registro più acuto durante una strofa, e planando su un baritono la successiva, come se la stesse ancora calibrando, come se fosse ancora non del tutto consapevole delle sue capacità o, più semplicemente, se volesse metterle pienamente a frutto, tracciando i contorni della sua estensione vocale.
Il suo modo di cantare assume a volte un tono che sembra stanco del mondo, triste, ma mai disperato, il alcuni momenti distaccato, in altri empatico. Shirley Hurt sarebbe potuto essere un album malinconico e deprimente e, invece, grazie alla voce di Katz, è molto di più.
Nel corso delle nove canzoni, Shirley Hurt esplora le mille sfumature del folk sperimentale, con momenti più melodici e passaggi arditi quasi jazzati -con il sax e il flauto di Shabason che spesso si prendono la scena-, distillando sonorità originali e imprevedibili, ma sempre carezzevoli e calde, che vengono sciorinate con apparente noncuranza, quasi che la loro intrinseca complessità, sia, in realtà, un’illusione. Gli arrangiamenti accuratissimi non appesantiscono mai i brani, scivolano intorno alla voce emozionante di Hurt, la definiscono, ne incrementano il fascino, senza mai sovrastarla.
E’, anzi, proprio la voce a essere il fulcro di tutto il lavoro, il suo centro di gravità, che richiama alla mente le voci di mille artiste e riesce, comunque, a mantenere carattere e personalità tali da distinguerle da quelle di chiunque altro.
Shirley Hurt è un esordio sorprendente, perché dimostra straordinaria maturità compositiva, personalità e coraggio e sembra incastonato in una sorta di atemporalità. Come se Weyes Blood e Aldous Harding (non a caso altre due artiste che preferiscono usare uno pseudonimo) avessero stabilito uno retaggio artistico e culturale e questo lavoro ne facesse da sempre parte. Ho l’impressione che Shirley Hurt sia sempre stato qui e sia destinato a rimanere e a fornire fondamenta solidissime per un lungo percorso artistico, che è appena cominciato, ma ha già dato grandi frutti.
Non riesco a convincermi che Shirley Hurt sia semplicemente un personaggio, sia solo il frutto della fantasia di Sophia Ruby Katz, il travestimento dietro il quale nascondere le sue fragilità prima di salire sul palco. Per me è una persona vera, un’artista vibrante e piena di talento. Ma, del resto, crediamo solo a ciò a cui vogliamo credere.
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