Non esistono cose difficili nella vita, ma tutto si divide in cose che si sanno fare e cose che non si sanno fare. Oggi mi sono svegliato con l’indole “generalizzatrice”, quella che va tanto di moda oltralpe.
Ah, fermi, quando dico oltralpe mi riferisco a voi, italiani! Ah-Ah. E anche se di generalizzazione si tratta, mi piace pensare che si possa applicare al nuovo brillante self-titled album degli Algiers, trio americano di stanza in Atlanta, GE.
In questo caso, come in tutte le cose difficili, l’amore nei loro confronti non nasce da un colpo di fulmine, ma piuttosto cresce nel tempo, così come l’amore che abbiamo verso un’altra band recente: The Young Fathers.
Come negli YF, infatti, la miscela sperimentale degli Algiers si basa su sonorità crude, industrial e post-rock (Blood, Old Girl), ma legate in maniera impeccabile dall’indole afro-americana del cantante (Black Eunuch). Sulla falsariga di altre band recenti tipo TV on the Radio o se vogliamo rivangare il passato, Bloc Party.
Già, quasi mi dimenticavo di dirlo, per il proprio tour gli Algiers hanno deciso di diventare un quartetto e hanno deciso di imbarcare nel progetto uno dei più grandi batteristi della propria generazione, il suo nome è Matt Tong e dei Bloc Party era (è?) batterista e parte fondamentale. Ascoltatevi Like Eating Glass. Sono passati dieci anni ma non riesco ad evitare i goose bumps.
La visceralità dei brani è un filo conduttore che lega gli undici brani, da Blood a Irony.Utility.Pretext, – vi giuro che è difficilissimo scriverlo senza crederci pienamente dato che al piano di sotto, mia suocera sta mettendo roba tipo Kendji e i Frero Delagarde che fortunamente non conoscete in Italia.
Gospel e soul si presentano in pezzi come Games oltre che a Black Eunuch, a rendere ancora più difficile la già difficile opera di catalogazione, ma anche in questo caso, sono qualità da aggiungere alla complessità dell’album e alla ricercatezza del suono degli Algiers.
Quando l’album arriva alla fine, con la coppia In Parallax e Untitled, si riesce a riscoprire per l’ultima volta l’intimo contrasto della band, fra suoni cupi ed industrial e suoni più semplici e luminosi ripresi da un sample degli anni ‘70 (il pastore T.L. Barrett) forse ad indicare una luce in fondo al tunnel.
Del resto è proprio questo che intriga e ci fa amare certe opere, la complessità della creazione e la maestria nel riuscire a sorpassarla per generare musica. E in questo album, gli Algiers riescono a farlo benissimo.