The Montgolfier Brothers – Seventeen Stars

Francesco Amoroso per TRISTE©

È sempre piuttosto difficile accogliere e introiettare nella giusta maniera l’idea di essere prossimi ad arrivare ai trent’anni. Se poi, poco prima della fatidica data, la vita cambia in maniera drastica e repentina, è probabile che sarà la paura ad accompagnare quel passaggio fondamentale dell’esistenza.

Anche se tento di essere distaccato (e quasi professorale) mentre enuncio queste incontrovertibili e banali verità, ciò non mi è possibile, poiché (purtroppo ormai parecchi anni fa) quello stato d’animo l’ho vissuto in prima persona.

TheMontgolfierBrothersSuppongo sia poco interessante raccontare i particolari delle varie vicende che mi hanno visto coinvolto. Quello che, invece, mi preme ricordare (e questa è sicuramente la sede adatta) è come, in quel periodo di travaglio interiore e di confusione esteriore, sia stato un disco, ancora una volta, a fornirmi sostegno, conforto e qualche raro momento di calma.

Non ricordo esattamente come quell’album sia giunto tra le mie mani e alle mie orecchie, ma, probabilmente, mi fu consigliato dall’amico Giuliano, persona dalla spiccata sensibilità musicale e umana che, vedendomi alquanto perduto, volle regalarmi l’unica medicina possibile in quel frangente.

Parlo di Seventeen Stars, primo album dei The Montgolfier Brothers, uscito nel 1999 per la piccolissima etichetta Vespertine (e ripubblicato l’anno successivo dalla Poptones di Alan McGee). Allora non conoscevo nulla della band né della carriera solista che i due artefici del progetto Montgolfier Brothers avevano intrapreso, anteriormente al sodalizio artistico che aveva portato a Seventeen Stars.

Mark Tranmer già da qualche tempo incideva, sotto lo pseudonimo di Gnac, album strumentali dove il pianoforte e la chitarra si mescolavano a suoni ambientali e elettronica minimale, Roger Quigley scriveva, firmandole solo con il proprio cognome, canzoni dai testi ricercati e letterari, intrise di spleen e romanticismo.

TheMontgolfierBrothers_1Entrambi collaboravano con la piccola etichetta Vespertine. Il loro sodalizio era inevitabile e, quasi per incanto, il risultato fu ben superiore alla semplice somma delle loro personalità artistiche.

Dopo l’esordio e la sua ripubblicazione per Poptones (Alan McGee aveva da poco liquidato la Creation e in molti pensavano che con la Poptones avrebbe potuto replicarne il grande successo) il duo diede alle stampe The World Is Flat nel 2002, sempre con Poptones, e All My Bad Thoughts tre anni dopo per la Vespertine And Son, diretta discendente dell’etichetta per la quale avevano esordito.

Da allora Tranmer e Quigley hanno, probabilmente per sempre, separato le loro strade: il primo proseguendo, ancora con lo pseudonimo Gnac, a pubblicare album e collaborazioni incentrate su un suono ormai personalissimo nel quale piano ed elettronica continuano il loro connubio indissolubile, il secondo scegliendo l’alias letterario At Swim Two Birds (titolo del primo folle e straordinario romanzo di Flann O’Brein), per riproporre in tre magnifici lavori le sue narrazioni meste, decadenti e adorabili.

Ma Seventeen Stars e i suoi due successori sono stati, senza dubbio, il vertice di una produzione artistica comunque di alto livello: una combinazione alchemica pressoché perfetta tra le musiche di Tranmer e le parole e la voce di Quigley. E non poteva essere altrimenti: il tocco cinematico e cinematografico di Mark Tranmer, infatti, era l’ideale per le liriche fortemente narrative di Quigley.

Ascoltando per la prima volta i brani dell’album, si aveva la sensazione che fossero tornati i tempi della Factory Records, e che i Montgolfier Brothers suonassero come i Durutti Column di Vini Reilly, vent’anni dopo. La loro musica, introversa eppure mai senza speranza, salvifica e calmante, lambisce il jazz e la classica, è figlia di un folk intinto nei colori scuri del post-punk e rigenera lo spirito con la serena malinconia di una composizione di Satie (cui, pur nella sua grandezza, mancano però le parole di Quigley).

TheMontgolfierBrothers_2Sono i testi, comunque, a esaltare nei brani di Seventeen Stars quel velo di confortevole tristezza, di quieta disperazione (“And even if my mind can’t tell you/And even if all the lips can’t know the words/My eyes will shine your name/My eyes will cry your name”) che ne fanno un piccolo, schivo, capolavoro.

Nelle note dei Montgolfier Borthers si percepisce una laconica accettazione della vita nella sua totalità, grazie alla quale lenire il dolore più forte e mitigare gli slanci di gioia eccessivi.
Erano ciò che serviva per un’anima in pena. E, periodicamente, è utile, quasi necessario, assumerne nuovamente una dose.

Ad ogni ascolto ritorna quell’inquietudine e, nello stesso momento, riaffiora la stessa quiete dolce e amara. Ci sentivo (e ci sento) le ugge della Manchester degli anni ottanta, che erano un po’ lei mie ugge, ci trovavo gli Smiths e la Factory Records, appunto.

E non potevo non amarli, non farli entrare, senza clamori, nel novero degli artisti con i quali provavo forti affinità elettive. Mi sarebbe così di gran conforto poter contribuire, anche in minima parte, a diffondere questo farmaco miracoloso e senza alcuna controindicazione.

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2 pensieri su “The Montgolfier Brothers – Seventeen Stars

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