Francesco Amoroso per TRISTE©
Conobbi gli inglesi Breathless come spesso accadeva a metà degli anni ottanta: una parola colta da un amico esperto, la lettura di una recensione su Rockerilla, una canzone orecchiata su Radio Rock (quando ancora Radio Rock era davvero una radio rock).
Ma ciò che mi incuriosii davvero e che mi portò ad ascoltarli (all’epoca per ascoltare un album bisognava acquistarlo, l’avevo già detto?) fu il titolo del loro album d’esordio: The Glass Bead Game, il gioco delle perle di vetro.
Allora che questo fosse il titolo di un difficile romanzo di Hermann Hesse era noto alla maggior parte degli adolescenti, visto che l’autore tedesco era una specie di passaggio obbligato per chiunque fosse un po’ interessato alla lettura (o volesse passare per intellettuale, compensando così mancanze fisiche più o meno evidenti).
Così alla ricerca di nuovi spunti di approfondimento mi lanciai con entusiasmo su quel lavoro ostico e avvolgente, rimanendo affascinato per quanto un po’ spiazzato (provai a leggere anche il romanzo “filosofico” di Hesse, ma ne capii ancora di meno): benché i suoni si potessero facilmente ricondurre dentro l’alveo del post punk (e di post punk ne masticavo) la struttura dei brani, o la sua mancanza, rendevano la musica di Dominic Appleton e compagni, di non immediato impatto e assimilazione.
Grazie alla partecipazione di Appleton al progetto This Mortal Coil e al grande successo che la band ebbe inspiegabilmente molto più in Italia che in patria, culminato in un incredibile concerto (che non riesco a collocare temporalmente) al Piper di Roma, continuai, comunque, a seguire il quartetto inglese, aspettando ogni nuova uscita con una certa trepidazione.
Il successivo Three Times And Waving, uscito un anno dopo, si muoveva sulla falsariga del suo predecessore, anche se le melodie cominciavano a delinearsi più nitidamente e quando, nel 1989, a tre anni dall’album d’esordio, uscì Chasing Promises ero lì, in attesa del capolavoro.
Tale, almeno per me, non si dimostrò, il terzo album degli inglesi. Eppure in Chasing Promises si potevano già ascoltare in nuce quei cambiamenti nel suono dei Breathless che li avrebbero portati dall’oscurità senza ritorno del post punk, verso i lidi di un dream pop fortemente pischedelico e visonario. E, così, mentre spesso accade che con i primi tre album una band abbia dato tutto, o, quantomeno, abbia esplorato la propria poetica per poi riproporla negli album successivi in tutte le salse, per i Breathless il quarto album fu quello della consacrazione.
Sin dal titolo, Between Happiness And Heartache, era chiaro che il lavoro non voleva affatto schermirsi, dichiarando apertamente il suo essere romantico e sentimentale. Niente più nascondersi dietro intellettualismi o suoni ostici e stranianti: i Breathless scrivono sette lunghi brani (e fanno una splendida cover di Flowers Die degli Only Ones) intrisi di chitarre sognanti e vocalità ultraterrena, delicati come mai prima d’allora, nei quali cantano l’amore e il dolore che ne deriva, analizzano con classico romanticismo la diffidenza, l’angoscia, le esaltazioni e le cadute.
La voce toccante e suggestiva, davvero difficile da dimenticare, di Dominic Appleton e il basso di Ari Neufeld a metà strada tra Peter Hook dei Joy Division e Simon Gallup dei Cure, le chitarre mai così in evidenza, ad anticipare di qualche anno lo shoegaze e a ricordare la psichedelia degli anni sessanta, e poi le tastiere e le percussioni ossessive, tutto contribuisce in questo magnifico album a creare un suono e un’atmosfera eterea eppure terrena, a metà strada, esattamente, tra una inspiegabile felicità e il mal di cuore. Appunto.
Un album, Between Happiness And Heartache uscito nel 1991, al crepuscolo di un’epoca nella quale la musica proveniente dall’Inghilterra riusciva a esprimere con forza e rigore il proprio oscuro subconscio, regalando profonde emozioni, incurante di mode passeggere e facile cinismo.
Sto diventando nostalgico.
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