Francesco Amoroso per TRISTE©
Sulla copertina, immancabilmente virata seppia, scelta da Vaughan Oliver per il primo lavoro del progetto collettivo dell’etichetta 4AD chiamato This Mortal Coil, c’è una figura femminile, con gli occhi chiusi, persa in una densa nebbia che le avvolge il corpo rendendolo quasi immateriale.
Altrettanto immersi nella nebbia sono i miei ricordi riguardo al momento in cui mi sono imbattuto nei This Mortal Coil e in It’ll End In Tears, l’album del 1984 che riassume in sé gli elementi distintivi, estetici e musicali, dell’etichetta 4AD di Ivo Watts Russell.
È probabile che sia stato semplicemente un incontro inevitabile, perché con band come Cocteau Twins, Cindytalk e Dead Can Dance era destino che qualsiasi appassionato di certe sonorità oscure, in breve tempo, si innamorasse di un’etichetta così fortemente caratterizzata e provasse (con tutte le difficoltà dell’epoca) a non perderne neanche un’uscita.
La 4AD, intorno alla prima metà degli anni ’80, infatti, grazie a scelte precise di tipo artistico e culturale, oltre che musicale, era diventata una garanzia assoluta e per questo motivo, suppongo, ascoltai (non certo nell’anno di uscita, ché all’epoca ancora frequentavo certi lidi oscuri molto saltuariamente) questo album che, del resto, sin dal titolo titillava i miei più bassi istinti autocommiserativi.
Ciò che è certo è che l’impatto fu devastante: le voci di Elizabeth Fraser e Lisa Gerrard, quella del meno noto, ma straordinario, Gordon Sharp (Cindytalk) e della guest star Howard Devoto (Magazine), insieme ai brani strumentali per lo più concepiti da un Simon Raymonde non ancora entrato nei Cocteau Twins, creavano sonorità arcane ed evocative, che sembravano arrivare da un’epoca remota, fuori dal tempo, benché fossero strettamente legate agli stilemi (al tempo) attuali di una new wave profondamente eterea, oscura, che, a tatti, grazie anche alle mirabolanti avventure chitarristiche di Robin Guthrie, anticipava e definiva quello che sarebbe poi stato il dream-pop.
Suoni e atmosfere che sembravano lontani anni luce dal punk che solo pochi anni prima furoreggiava e che, tuttavia, interiorizzandone e intellettualizzandone il credo, ne erano direttamente discendenti. Parlare di stili e genealogia, comunque, sarebbe fuorviante, perché It’ll End In Tears era ed è, prima di ogni altra cosa, un album dal travolgente impatto emotivo.
Sin dalla scelta delle canzoni da riprendere (sì perché i brani cantati, a differenza degli strumentali, tutti originali, sono quasi esclusivamente cover) è evidente che si punti tutto verso le emozioni: vengono scelti artisti come Tim Buckley, Alex Chilton e Roy Harper.
Song To The Siren, è, inevitabilmente, il vertice assoluto dell’album: una canzone dove, sulle minimali chitarre di Robin Guthrie, l’interpretazione vocale di Liz Fraser spinge l’ascoltatore sulle soglie dell’assoluto, tenendolo sempre sulla sottile corda del sublime in un crescendo che sembra infinito proprio perché non trova mai uno sbocco, uno sfogo, come il più seducente degli incubi.
L’incantesimo si ripete, seppur su toni più distesi, anche in Another Day, brano di Roy Harper che la Fraser interpreta in maniera celestiale (e, a quel punto, risulta chiaro che a Bisanzio non avrebbero mai perso tempo a discutere del sesso degli angeli se avessero avuto l’occasione di ascoltare la voce di Liz).
A costo di dilungarmi (come se non lo facessi già abbastanza di solito) devo segnalare anche le due splendide cover di brani di Alex Chilton, Kangaroo interpretata in apertura da Gordon Sharp e Holocaust cantata da Howard Devoto, che ancora oggi suonano attualissime e, con il loro afflato cameristico, esaltano i dolenti testi originali.
La dolcezza della finale A Single Wish, ancora cantata da Sharp, è la perfetta chiusura di un album il cui ascolto, ancora oggi, a distanza oltre di tre decenni dalla sua uscita, è, per me, materialista impenitente, ciò che più si avvicina a un’esperienza mistica.
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