La Philofobia (dal greco “φιλος”, amore, e “φοβία”, fobia) è definita come la paura persistente, ingiustificata e anormale di innamorarsi o di amare una persona.
Nel maggio del 1998 il duo scozzese Arab Strap, Aidan Moffat ai testi e alla voce e Malcolm Middleton alle musiche, diede alle stampe il proprio secondo album, appunto intitolato Philophobia.
All’epoca mi sembrò fosse una coincidenza davvero bizzarra, vista la piega che la mia vita sentimentale stava prendendo. Tuttavia, analizzando le cose a freddo, mi rendo conto che la maggior parte degli ascoltatori avrà pensato lo stesso, visto che l’album è uno straordinario trattato crudo, e allo stesso tempo poetico, sull’amore in tutte le sue sfaccettature e latitudini.
Avevo adorato un paio d’anni prima l’album d’esordio di questi due giovani scozzesi, male assortiti esteticamente (un cantante grosso, greve e barbuto, chiaramente incline all’alcol e un chitarrista dai capelli rossi, pallido, timido e schivo), ma dal suono unico e dai testi quasi inintelligibili. Si chiamava The Week Never Starts Round Here e l’avevo scoperto grazie a una delle solite riviste inglesi che, finalmente, intorno alla metà degli anni 90, cominciavano a essere reperibili anche dalle nostre parti con una certa continuità.
Aspettavo, così, con grande trepidazione il loro secondo lavoro. Fortunatamente, insieme alle riviste musicali inglesi, anche gli album erano diventati piuttosto facilmente reperibili, soprattutto nella capitale, così ne entrai in possesso quasi immediatamente.
La prima cosa che mi colpii fu l’artwork: sul fronte e sul retro ci sono Aidan Moffat e la sua allora fidanzata, completamente nudi, dipinti dall’artista Marianne Greatedin in maniera molto esplicita e quasi brutale nel loro realismo. Sono l’esatta rappresentazione grafica del contenuto dell’album.
I testi di Philophobia sono, infatti, diretti, senza alcuna vergogna o tabù: in una serie di brani che si susseguono emotivamente coinvolgenti e musicalmente avvolgenti, il narratore si sofferma su particolari di un rapporto amoroso che, a seconda dei punti di vista, potranno sembrare squallidi o poetici e, molto spesso, entrambe le cose contemporaneamente: l’amante che si ferma, sulla via di casa, a annusarsi le mani sulle quali sente l’odore di lei; la sopravvenuta impotenza momentanea dovuta all’ubriachezza, la propria ragazza colta con le mani nei pantaloni di un altro.
Nessuna verità, per quanto vergognosa, è indicibile e nessun sentimento è messo in ridicolo, nessuna scelta condannata a priori.
Accanto a queste scene sordidamente ordinarie e ferocemente vere, arrivano, inaspettati, momenti di straziante bellezza e di poesia quotidiana. Ascoltate New Birds per farvene un’idea. C’è sintetizzata tutta la poetica e la visione musicale dei due scozzesi: basso levigato, percussioni e batteria soffici, un loop di chitarra e quella voce, profonda e un po’ ubriaca, che ci narra di un incontro con una ex molto amata, della difficoltà di lasciar perdere il passato, della possibilità di tornare indietro e della scelta di guardare, invece, al presente.
E, poi, quella coda di chitarre distorte e di post rock alla Mogwai a chiudere una canzone perfetta, che riesce a parlare di fedeltà e impegno senza minimamente suonare paternalistica.”But you make sure you get separate taxis and you go home and there might be a slight regret and maybe you’ll wonder what you missed but you have to remember the kiss that you worked so hard on – and you’ll know you’ve done the right thing”.
Non ho voglia di scomodare Carver o Cheever, e nemmeno Irvine Welsh, ma i tredici brani di cui si compone l’album, sono tredici racconti perfettamente compiuti, lirici, patetici, romantici e coinvolgenti nei quali ognuno di noi si riconosce (pur non volendo), scritti da un artista dalle incredibili doti narrative (e ancora qualcuno si sofferma sul fatto che non sappia cantare…) e musicati da un chitarrista con le idee chiarissime, la cui musica nella sua spigolosa semplicità è espressiva più di un’ orchestra di 40 elementi.
Non è affatto un caso, del resto, che il libretto allegato al cd (suppongo che, per i maniaci del vinile la cosa non funzioni affatto così bene) sia concepito proprio come un libro di narrativa, con il suo frontespizio, le pagine numerate e i testi senza soluzione di continuità (e, in seconda di copertina la dicitura: “Also from Chemikal Underground by the same authors:…”).
Philophobia, oltre a essere un album dalla struggente magnificenza è, così, uno dei momenti più alti del connubio tra musica e narrativa mai raggiunti negli anni novanta.
[Mentre rileggo mi viene in mente che, in quegli anni, con gli Arab Strap, arrivavano da Glasgow anche i Belle And Sebastian (alcuni dei cui membri suonano su questo album): seppure possano sembrare due band agli antipodi, in qualche modo raccontavano, con toni e colori diversi, da prospettive spesso antitetiche, le stesse esperienze di vita.]