Francesco Giordani per TRISTE©
Un disco come One Night Stand Forever mi rincuora non poco. Anzi: mi conforta.
Perché mai? Perchè nel suo molto piccolo esso dimostra, almeno a me (che da giorni lo sento e risento, a intervalli più o meno regolari), perché dimostra, dicevo, che in fondo non ho sognato tutto.
Aggiungerei pure: fosse uscito dieci anni fa, (nel 2007, poniamo) questo One Night Stand Forever, tutti o quasi, con ogni probabilità, saremmo stati costretti a parlarne. Essendo uscito invece oggi, nel 2017, si stenta quasi (con un certo personale sgomento) a trovarne in giro anche la più scarna recensione, che non sia peraltro un taglia e cuci dello stesso comunicato stampa.
Eppure, come già scritto, io me lo ricordo bene il 2007, avendolo vissuto in prima persona. E sono abbastanza certo di non averlo sognato (sebbene talvolta, vista la distanza temporale sempre più ampia, qualche dubbio in me si insinua…).
Mi basta tornare a scorrere la mia classifica, stilata nel dicembre di quell’anno: The Good The Bad And The Queen, The National, Arcade Fire, Editors, Maximo Park, St Vincent, Radiohead, Amy Winehouse, Lcd Soundsystem, Akron/Family, Modest Mouse, Jens Lekman, Bat For Lashes, Clientele, Interpol, Menomena, Spoon, White Stripes, Art Brut, Shins, Animal Collective, Cold War Kids, Patrick Wolf, Maccabees, Liars, Super Furry Animals, Okkervil River, più tanti altri che avrei potuto/forse dovuto includere.
Solo a snocciolare i nomi di questo parzialissimo, idiosincratico, rosario, tremano le mani, al pensiero della a dir poco mitologica opulenza di quegli anni dorati, in cui l'”indie-rock” fioriva ogni giorno in cornucopie di dischi, interviste, reportage, trepidanti recensioni e concerti che avevano ancora e davvero, questo non potrò mai (e sottolineo mai) scordarlo, l’inconfondibile suono degli ingranaggi di una Storia viva, che si muove e va da qualche parte. O quanto meno una parvenza, seppur forse ingannevole, di quel suono.
Ecco, di acqua sotto i ponti da allora ne è passata sin troppa ma provare anche solo a ipotizzare un confronto fra quel 2007 e il nostro oggi musicale (o almeno il mio)… Beh, suggerisco semplicemente di non provarci. Eppure questi White, che sono in cinque e vengono da Glasgow, non possono non farmi ripensare, con dolcezza e anche, perché no, piacevolissima impudenza, alla musica “dei miei vent’anni”.
Spero non suoni troppo retorico. One Night Stand Forever sarà pure, come da titolo, roba da una botta e via (occhio però al “Forever”: ciò che è stato una volta sarà comunque per sempre). Tuttavia quello che soprattutto mi arriva, ascoltando, è il sapore buono, fresco, ristoratore, di una boccata d’ossigeno pulito.
Le canzoni di questo quintetto circolano da più di un anno (alcune furono già incluse nell’ep inaugurale Cuts That Don’t Bleed). In esse si ritrova quella verve un po’ edonista un po’ intellettuale dei primi frizzantissimi Franz Ferdinand, e, per successive deduzioni, di tutto un glorioso suono scozzese spesso contiguo alla pista da ballo (certi Orange Juice, certi Associates, certi Aztec Camera, certi Altered Images, certi The Wake e via dicendo). Il tutto filtrato attraverso un gusto “punk-funk” molto ma davvero molto Dfa (a proposito di anni Duemila…).
Il disco, trattandosi di un esordio, è tutt’altro che perfetto o scevro da difetti, intendiamoci: spaccato in due dal bel ballatone in odore di Bowie/Ferry This Is Not A Love Song, dopo una prima metà con grandi e grandissimi numeri tutti da sgambettare (Blush, Living Fiction, la grandiosa Future Pleasures), tende a calare più o meno sensibilmente nella seconda parte, forse troppo lunga (ma la depechemodiana I Like You Better When You Needed Me e Private Lives spingono ancora per bene).
I testi, spesso su relazioni al capolinea, appaiono impressionisti e frammentari, quasi cifrati (se non allucinati), più sonori che sensati, ma qualche inciso resta impresso (ad esempio il “Don’t Break Apart” di Blush o il distico “Will anybody help you out/Will anybody shoot you down” di Living Fiction).
Che dire? One Night Stand Forever è un disco che prova a smuovere il cuore (e con esso le parti alte dell’anima), cominciando dai piedi. E che spesso ci riesce pure, con risultati personalmente assai apprezzabili.
Nota finale di merito: le voci in questo album non sono trattate né vocoderizzate (bravissimo peraltro il cantante Leo Condie), come si usava in un tempo, ormai lontano, di canzoni pre-autotune .
Ah, quanti ricordi…